RISPETTO E DIGNITÀ DELLE DONNE E DELLE 21 "MADRI DELLA REPUBBLICA": LA VIA PRINCIPALE PER UN'ALTRA POLITICA. Intervento di Gabriella Manelli, seguito da una nota di Federico La Sala

2021-12-06 02:00:56 By : Ms. Yoga Liu

[...] "Solo osando la politica può fare la storia": è Machiavelli, citato da Romitelli, parlando sempre di partigiani. La stessa cosa si può dire delle donne, ieri e oggi: se vorranno tornare a incidere sulla storia, come avvenne negli anni '60-'70 del secolo scorso, non potranno che affrontare in modo inedito, sperimentale, l'irrisolto , lo sconosciuto. è oggi nei rapporti tra governanti e governati. Con passione e audacia […]

DEMOCRAZIA: ABBI IL CORAGGIO DI PAROLA E PARLA DA CITTADINO SOVRANO - DA CITTADINO SOVRANO.

OLTRE LA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventa miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come lo sono di Cristo. Ti lodo perché in tutto ti ricordi di me e mantieni le tradizioni come le ho io Ma voglio che tu sappia che il capo di ogni uomo è Cristo, e il capo della donna è l'uomo, e il capo di Cristo è Dio» (1 Cor 11, 1-3).

L'ITALIA E L'ANNO DELLA VERGOGNA (1994): L'ALLARME DI DON GIUSEPPE DOSSETTI E IL SILENZIO GENERALE SULL'INVESTIMENTO ATEISTICO DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ("FORZA ITALIA"). Una nota di Nadia Urbinati sulla "difesa della Carta", oggi (2009)

Il rispetto per le donne passa dalla Costituzione

Siamo orfani della politica. Il potere ha preso il suo posto: chi lo detiene lo usa con mezzi privati, ... denaro, scambi di favori. Non abbiamo una cultura della responsabilità morale. Dopo anni di partecipazione, la dimensione pubblica si è spenta nella mente dei cittadini». (Nadia Urbinati)

Non più cittadini, ma governanti e governati. E le donne? "Fazzoletti ingrati". Le donne, secondo “loro”, dovrebbero sempre ringraziare qualcuno per i propri successi, e in larga misura lo fanno anche, espropriandosi non solo del proprio corpo, ma anche della propria capacità di scegliere e decidere. Tutto l'opposto dell'autodeterminazione della buona memoria.

Quindi il silenzio delle donne è segno di un silenzio interiore. Silenzio interiore di chi ha perso il contatto con se stesso e silenzio politico. "Il personale è politico", dicevamo quando decidevamo di partire da noi stessi per fare una nuova proposta politica; e divenne autocoscienza. E così hanno inventato una proposta politica e un pensiero politico diversi da quelli dei governanti e dei partiti, che si ispirano a un'idea di politica asettica. Invece, dalla capacità di mettersi in gioco, per non lasciare le passioni fuori dall'orizzonte politico, dall'audacia di esplorare nuove strade, “andare alla ricerca di terre e mari sconosciuti: sconosciuti, eppure già esistenti” (Romitelli, “Odio per i partigiani”).

«Solo osando la politica può fare la storia»: è Machiavelli, citato da Romitelli, sempre in tema di partigiani. La stessa cosa si può dire delle donne, ieri e oggi: se vorranno tornare a incidere sulla storia, come avvenne negli anni '60-'70 del secolo scorso, non potranno che affrontare in modo inedito, sperimentale, l'irrisolto , lo sconosciuto. è oggi nei rapporti tra governanti e governati. Con passione e audacia. Quali sono anche le risposte ad un problema, a mio avviso da riformulare: come coinvolgere le “altre” donne? Con audacia e passione, appunto, empatia.

Per inciso, sarebbe interessante sbrogliare il filo intrecciato di passione e audacia che lega donne e partigiani. Una cosa è certa: sono state tante le donne che, pur combattendo insieme ai partigiani per i diritti di tutti, hanno intrapreso il loro percorso di crescita personale e politica. Mettere al primo posto i rapporti con le altre donne è stata un'altra scelta politica non solo delle femministe, ma, molto prima, delle “madri della Repubblica”, le 21 donne che hanno partecipato all'Assemblea Costituente. Indicando nella relazione, cioè nella "via dell'amore", come dice Luce Irigaray, la dimensione fondamentale dell'individuo e quindi la strada maestra per un'altra politica.

25 giugno: salviamo la Costituzione e la Repubblica che è in noi

di Federico La Sala (quotidiano Libertà - Piacenza, 08.06.2006, p. 35)

Il 60° anniversario della nascita della Repubblica Italiana e dell'Assemblea Costituente, Avvenire (il quotidiano dei vescovi della Chiesa Cattolica Romana) lo ha commentato con un "editoriale" di Giuseppe Anzani, intitolato (molto pertinentemente) "Primacy della persona La repubblica in noi” (2 giugno 2006), in cui si discutono in particolare gli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri 'Padri' e delle nostre 'Madri' costituenti.

Salvo qualche ambigua 'battuta', come quando si scrive e si sostiene che «il baricentro dell'equilibrio resta il primato della persona umana di cui la cultura cattolica è la matrice» – dove non si capisce se si tratta di cultura universale, di ogni genere umano o cultura che si riferisce a quell'istituzione particolare che si chiama Chiesa 'Cattolica' (un po' come se parlassi a nome dell'Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli da italiano o da un membro di un partito chiamato "Forza ... Italia"!?), - il discorso è comunque, per la maggior parte, accettabile ...

Ciò detto, possiamo senz'altro essere d'accordo con quanto sostenuto alla fine dell'editoriale in merito al “diritto alla vita” (“è in cima al catalogo 'aperto' dell'articolo 2, è in cima all'irrintracciabile promessa dell'art. 3”) e la necessità di un'attenzione responsabile ad essa (“Mai declinare la difesa della vita; senza di essa decade la Repubblica”).

Ma, detto questo, l'ambiguità ritorna subito e ci spinge a porci domande forti su cosa stia sostenendo chi ha scritto ciò che ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!

Un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un altro cittadino, parla da italiano ordinario (- universale, cattolico) o da esponente del partito 'comune' ('universale', 'cattolico')?

O, ancora, come cittadino di un partito che dialoga con il cittadino o cittadino di un altro partito per discutere e decidere quali decisioni prendere per seguire al meglio le indicazioni della Costituzione, la Legge dei nostri 'Padri' e delle nostre 'Madri'. che ci ha fatto - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini sovrani e cittadini sovrani?!

Nonostante le tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e a chiarire le idee da tutte le parti - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c'è ancora molta confusione nel cielo del partito 'cattolico' italiano: non hanno compreso fino in fondo né l'unità-distinzione tra il "Bibbia civile" e la "Bibbia religiosa", né la differenza radicale tra "Dio" [Amore - Charitas] e "Mammona" [Caro-Prezzo - Caritas] o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o quella del il vitello d'oro e la legge di Mosè!!! E non hanno ancora compreso appieno che una Repubblica dentro di noi... non significa affatto una Monarchia o Repubblica 'cattolica', né dentro né fuori di noi, e nemmeno la Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!! !

Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico... e della montagna è un'altra cosa!!! La Costituzione è - lo ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutti i suoi sette anni il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra "Bibbia civile", la Legge e l'Alleanza dei nostri 'Padri' e delle nostre 'Madri' costituenti ( 21 cittadini-sovrani hanno preso parte ai lavori dell'Assemblea), e non la 'Legge' della "mammasantissima" e del "grande fratello"... che si spaccia per nostro Padre eterno e Sposo di nostra Madre: che cecità e quanto zoppicare nella testa e nel cuore, e quale offesa alla nostra Legge dei nostri 'Padri' e delle nostre 'Madri' - di tutti e di tutti noi, e anche dei nostri cari cattolici italiani e dei nostri cari cattolici italiani!!!

Nel 60° anniversario della nascita della Repubblica Italiana, e dell'Assemblea dei nostri Costituenti 'Padri e' Madri', tutti i cittadini italiani non possono che essere consapevoli, grati, orgogliosi e orgogliosi di essere cittadini italiani. e cittadini italiani, e celebrare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione d'Italia, e cercare con tutto il cuore, con tutto il corpo e con tutto lo spirito, di agire in modo che sia per se stessi e per i propri figli e figlie... che il "futuro" sia più bello, degno di uomini liberi, giusti e pacifici! L'Amore [Charitas] dei nostri 'Padri' e delle nostre 'Madri' illumini sempre il cammino di tutti gli Italiani e di tutti gli Italiani...

Viva la Costituzione, viva l'Italia!!!

  All'Assemblea Costituente, su 556 elette, 21 erano donne:

  9 NEL GRUPPO DC, SU 207 SOCI: LAURA BIANCHINI, ELISABETTA CONCI, FILOMENA DELLI CASTELLI, MARIA IERVOLINO, MARIA FEDERICI AGAMBEN, ANGELA GOTELLI, ANGELA GUIDI CINGOLANI, MARIA NICOTRA, TITOMANLIO VICTORY;

  9 NEL GRUPPO PCI, SU 104 SOCI: ADELE BEI, NADIA GALLICO SPANO, NILDE IOTTI, TERESA MATTEI, ANGIOLA MINELLA, RITA MONTAGNANA TOGLIATTI, TERESA NOCE LONGO, ELETTRA POLLASTRINI, MARIA MADDALENA ROSSI;

  2 NEL GRUPPO PSI, SU 115 SOCI: BIANCA BIANCHI, ANGELINA MERLIN;

  1 NEL GRUPPO DI QUALSIASI UOMO: OTTAVIA PENNA BUSCEMI.

Sull'argomento, sul sito, si veda:

  UOMINI E DONNE. SULL'USCIRE OGGI DALLO STATO DI MINORANZA. OLTRE "Edipo".

UNA DOMANDA ALL'ITALIA: MA COME HAI RIDOTTO QUESTO?! UNO "STATO BORDELLO": UN PAESE BORDELLO. Una nota di Maurizio Viroli (dagli USA) - e una risposta (agli americani)

OLTRE LA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventa miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come lo sono di Cristo. Ti lodo perché in tutto ti ricordi di me e mantieni le tradizioni come le ho io Ma voglio che tu sappia che il capo di ogni uomo è Cristo, e il capo della donna è l'uomo, e il capo di Cristo è Dio» (1 Cor 11, 1-3).

DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L'importanza della lezione "MATRIMONIO PROMESSO" oggi

  L'ITALIA E L'ANNO DELLA VERGOGNA (1994): L'ALLARME DI DON GIUSEPPE DOSSETTI E IL SILENZIO GENERALE SULL'INVESTIMENTO ATEISTICO DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ("FORZA ITALIA"). Una nota di Nadia Urbinati sulla "difesa della Carta", oggi (2009)

  DEMOCRAZIA: ABBI IL CORAGGIO DI PAROLA E PARLA DA CITTADINO SOVRANO - DA CITTADINO SOVRANO.

ALLE RADICI DELLA POLITICA VATICANA. LA GUERRA IN CAPO DELLA GERARCHIA DELLA CHIESA CATTOLICA ROMANA E L'INDICAZIONE 'DIMENTICATA' DI GIOVANNI PAOLO II.

EQUIVOCO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA' LE NOSTRE PAROLE

  PER L'ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLETANO, CREDO SIA ORA DI CHIARIRE. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ...

"Non difendono le donne, vogliono solo rinchiuderle in casa"

Chiara Saraceno. "Oggi il linguaggio omofobo della politica autorizza chiunque ad offendere il padre o la madre di un bambino"

di Carlo Lania (locandina, 26.03.2019)

«Questi gruppi sono sempre esistiti, oggi diamo loro tutta questa attenzione perché si incontrano a Verona ma sono gli stessi delle Sentinelle in piedi o del Family day. Sono quelli che pensano che ogni diritto riconosciuto a qualcun altro sia un diritto tolto loro. Di qui la difesa della famiglia naturale, come se esistesse realmente, fatta come se la famiglia fondata sulla coppia eterosessuale fosse sotto attacco. È un po' come certi figli illegittimi si autodefinivano per difendere la famiglia legittima».

La sociologa Chiara Saraceno guarda con preoccupazione al Congresso mondiale delle famiglie che si apre venerdì a Verona.

“Non varrebbe la pena prenderle in considerazione, se queste posizioni non avessero recentemente ricevuto molta attenzione e popolarità nei governi più reazionari. Sono molto amati non tanto e solo da chi è contro le coppie omosessuali, ma da chi è contro ogni diritto civile, libertà, opinione».

È sorprendente che questi gruppi abbiano per la prima volta un palcoscenico così visibile.

Ma l'abbiamo dato a loro, perché finché hanno fatto le loro cose in Ungheria o in Moldova, non lo sapevano. Invece sulla loro pagina web dicono di essere stati invitati dal vicepremier Salvini. Non so se sia vero o no, tuttavia nessuno le ha negate. Inoltre c'è stata la vicenda del patrocinio della presidenza del consiglio che sembra essere stata ritirata. Preoccupa l'avallo politico dato da una parte del governo che, pur essendo una minoranza, è quello che comanda, al punto da aver imposto un proprio ministro per la famiglia che è uno dei principali sponsor del congresso. Inoltre, sono sempre lì a difendere la famiglia naturale, ma non li ho mai visti fare una proposta seria per sostenere le famiglie. Niente. L'unica cosa che mi viene in mente è che devi aiutare le madri a restare a casa.

La famiglia tradizionale è sempre stata un cavallo di battaglia esclusivo della destra. Anche questo è stato un errore a sinistra?

Questo era vero fino a dieci, quindici anni fa. Quando ho cominciato ad occuparmi di questi temi, ho detto che in Italia c'era stato una specie di patto di Yalta, per cui la sinistra si occupava del lavoro e la destra si occupava della famiglia. Già negli anni '70, un po' sotto lo stimolo del movimento delle donne, la sinistra dovette redigere alcune proposte. Poi sicuramente quando Fernanda Contri è stata ministro degli Affari Sociali con il governo Ciampi, alcune politiche sono state fatte anche se mai abbastanza, perché sono sempre arrivate in rimesse. E poi ovviamente c'è stata l'intera stagione dei diritti civili. Anche recente. Quello che imputo alla sinistra è che non ha mai fatto serie politiche per la famiglia, tranne la breve stagione in cui il ministro era Livia Turco che ha raccolto dei fondi per gli asili nido.

Dagli anni '70 ad oggi le trasformazioni della famiglia sono state notevoli, ne cito solo alcune: divorzi, unioni civili e poi le famiglie arcobaleno.

Ma le trasformazioni sono avvenute anche all'interno della stessa famiglia, basti pensare che oggi la maggior parte dei bambini in età prescolare ha una madre che lavora, o il fatto che molti padri, soprattutto se piccoli, non pensano più che la cura dei figli non li riguardi. Non parliamo dell'invecchiamento delle parentele, altro tema su cui la politica ha pensato poco. Si parla sempre del fatto che l'invecchiamento della popolazione uccide il welfare, ma non si considera che stia sovraccaricando anche le reti familiari.

Tuttavia, i risultati degli ultimi anni vengono ora messi in discussione.

Sono interrogati da questi signori che sono a Verona e certamente anche dal nostro Ministro dell'Interno e dal nostro Ministro della Famiglia. Ma non credo che avranno il coraggio di cancellare le leggi. Semplicemente fermeranno il percorso, lo renderanno più difficile, e questo anche con il linguaggio. Oggi una parte della popolazione si sente autorizzata ad offendere il padre o la madre di un bambino solo perché certe espressioni omofobe fanno ormai parte del discorso pubblico.

Gli organizzatori del congresso si difendono dalle critiche dicendo che vogliono parlare solo di politica al femminile.

Già quando si parla della donna al singolare mi fa un po' rabbia. Presuppone l'idea che le donne abbiano tutte gli stessi desideri o doveri e che, se aiutate, starebbero volentieri a casa loro a prendersi cura dei bambini.

E infatti si propone un reddito di maternità.

Sono meccanismi che rischiano di impoverire le donne. I bambini restano a casa a lungo, ma non hanno bisogno di cure a tempo indeterminato. Allora chi è rimasto a casa, magari sostenuto da un reddito, che possibilità avrà di rientrare nel mercato del lavoro o di avere una pensione adeguata? Nessuno. E per di più produrrà ulteriori disuguaglianze, perché le donne con un'istruzione non rinunceranno al lavoro, mentre le altre invece di essere incoraggiate a formarsi saranno spinte a restare a casa, sempre più dipendenti da un uomo che spesso, dal punto di vista economico di vista, non può farlo neanche lui. Il risultato è che nel medio-lungo periodo, quando quel reddito sarà esaurito, le famiglie saranno impoverite.

IL MAGGIORATO (NON "PATRIARCATO"!). La crisi epocale dell'ordine simbolico della "mammasantissima" (Alleanza Madre-Figlio) * Del femminismo liquido

di Rossella Ghigi (Il Mulino, 08 marzo 2018)

Gli eventi elettorali annebbiano solo in parte lo spazio mediatico occupato ogni anno dalla Festa della donna. Anche quest'anno, infatti, all'appuntamento dell'8 marzo non possono mancare alcuni must: chi celebrerà le virtù delle donne, ricordando quanto “sanno farlo” anche in condizioni difficili perché “hanno una marcia in più” (per non diciamo, con le solite espressioni, quanto siano ammirevoli se hanno "attributi" maschili anche propriamente detti, il che è tutto da dire sul sessismo di questa figura retorica). Chi vorrà ricordare l'importanza di un giorno nato con un martirio, quello dei lavoratori americani bruciati che vivono in un incendio perché il proprietario della fabbrica di New York dove questo è accaduto (Triangle? Cotton? Le versioni non coincidono mai) li teneva rinchiusi. E chi osserverà come sono cambiati i tempi, quanto lontane erano le sfilate delle donne in piazza per rivendicare diritti e libertà e come oggi questa ricorrenza sembra svuotata di allegre cene tra amici, magari accompagnate dall'artificiosa ironia dello spogliarello maschile (perché “le giovani generazioni non le conoscono, hanno trovato tutto pronto”).

Il riferimento agli scandali sessuali ea forme più o meno glamour o addomesticate di femminismo d'oltreoceano sarà probabilmente la cronaca dei media di quest'anno, con riferimenti spesso smemorati a una riflessione quasi laica su questi temi. Questi sono tutti discorsi da cui ora siamo dipendenti. E non si tratta, in fondo, semplicemente di decostruire le fondamenta - osservando, ad esempio, che il mantra che le donne "ce la fanno" possa finire per giustificare le carenze del welfare, o che il mito del fuoco sia stato contestato. dalla storiografia (si veda in proposito l'opera di Tilde Capomazza e Marisa Ombra) ed è un'origine che “non lega”, ovvero che contraddizioni tipiche di un contesto di circolazione globale di beni, informazioni e persone, di catene transnazionali di cura e digitalizzazione del dissenso vedono l'articolazione delle questioni di genere in modi nuovi, intersezionali, attenti alle istanze del Sud del mondo, ma anche il revival di forme più tradizionali di protesta di piazza (a partire dallo sciopero globale di oggi). Si tratta piuttosto di capire quanto del femminismo sia oggi in realtà un patrimonio comune, superando le facili critiche all'emancipazione da tastiera, al mercantilismo del femvertising o alla spettacolarizzazione hollywoodiana, per aprirsi a una riflessione sulle potenzialità di nuove forme di condivisione delle esperienze come il #metoo o il movimento Non uno di meno. Quanto di esso è sdoganato - purché sia ​​un po' annacquato e non lo chiami con questo nome - e quanto è tradito, dove ormai nessuno, a destra o a sinistra, sembra sfuggire alla lode dell'uguaglianza nella differenza, dell'uguaglianza nella meritocrazia, della libertà nell'affermazione individuale. La filosofa Nancy Fraser ha fatto una dichiarazione molto chiara sull'argomento: i temi del femminismo sono stati fagocitati dal neoliberismo, così come, secondo Slavoj Žižek o Luc Boltanski, l'ambientalismo o la critica sociale del 68 sono stati dal capitalismo, ovvero trasformare istanze di autenticità e giustizia in merci da consumare e sistemi da riprodurre. Tuttavia, aggiunge Fraser, alcune condizioni strutturali emergenti possono permetterci di non essere vittime delle seduzioni individualistiche del capitalismo e di riprendere il filo di un altro discorso del femminismo di seconda ondata che è stato per molti versi abbandonato: quello della solidarietà sociale, della politicizzazione del personale e rifiuto dell'economismo.

Riprendere quel filo significa ripartire dalla struttura, dal tessuto economico e sociale, tralasciando enunciazioni di principio più o meno liquide, ma osservando la materialità delle asimmetrie nel loro verificarsi quotidiano. Le dimensioni in cui ciò avviene sono molteplici. Rielaborando la proposta di un testo classico degli anni Settanta, La condizione della donna di Juliet Mitchell (Einaudi, 1972), Raewyn Connell (2011) si propone ad esempio di analizzare l'asimmetria tra uomo e donna secondo quattro dimensioni. La prima, quella della produzione, del consumo e dell'accumulazione. La divisione sessuale del lavoro, la segregazione occupazionale, la discriminazione, i vari soffitti e labirinti di vetro che separano uomini e donne lungo gli assi verticali e orizzontali della gerarchia del lavoro rappresentano la dimensione principale delle asimmetrie di genere riconosciute nelle scienze sociali. Il secondo, quello del potere, è stato un elemento cruciale nell'analisi del funzionamento del sistema patriarcale elaborato dal femminismo radicale. Il potere dei mariti sulle mogli e dei padri sulle figlie è stato al centro di una riflessione critica sull'esperienza di sopraffazione e violenza vissuta tra le mura domestiche, riflessione che si è poi estesa ad ambiti extradomestici e forme più tacite di subordinazione, anche simbolico. La terza, la dimensione emotiva, comprende le asimmetrie nelle aspettative che una società costruisce intorno all'espressione e alla gestione delle emozioni in base al genere, che dà luogo anche alle attribuzioni di una diversa attitudine alla cura e alla dipendenza dagli altri: a seconda che siamo uomini o donne siamo socializzati non solo a comportamenti e stati emotivi differenti, ma ad una considerazione diseguale in termini di autocontrollo, degli altri e dell'ambiente. La quarta, infine, è la dimensione culturale e discorsiva: in contesti che vanno dal linguaggio alle rappresentazioni visive, dal diritto alla religione, mascolinità e femminilità sono continuamente evocate e riprodotte, ribaltate e contestate, in condizioni di visibilità e di accesso alle risorse che sono tuttavia asimmetrici e discriminanti (basta spesso invertire mentalmente i ruoli di donne e uomini per far emergere le elevazioni simboliche e le degradazioni di entrambi).

Liberamente ispirati da questa classificazione, cerchiamo qui di richiamare alcuni elementi che possono farci riflettere sul significato di una festa della donna in un Paese come il nostro, in cui molti indicatori suggeriscono che c'è ancora molta strada da fare. Per la prima dimensione, ci occuperemo delle disuguaglianze nel mercato del lavoro. Abbiamo già avuto modo, in questa rivista, di conoscere le difficoltà di conciliazione dovute alle carenze nei servizi (vedi Naldini e Santero); si tratta qui di osservare quali difficoltà incontrano le donne in termini di inserimento e permanenza nel mercato del lavoro, soprattutto quando decidono di essere madri. Per la seconda dimensione, richiameremo i dati sulla violenza di genere e le forme che sta assumendo in un Paese dove una donna viene uccisa ogni due giorni per mano del proprio partner o ex-partner (e non avviene il contrario, va ricordato) e dove permangono ancora forti carenze e disomogeneità nelle strutture di accoglienza e di accoglienza contro la violenza. Per il terzo, vedremo i dati relativi alla persistenza di asimmetrie nella cura e nel lavoro domestico anche nell'era delle "nuove paternità" e dei "padri affettivi", in un quadro di divisione del lavoro domestico particolarmente squilibrato rispetto ad altri Paesi europei. Per il quarto, infine, proporremo i dati di una recente indagine internazionale sulle donne nei tg di TV, radio e giornali, dalla quale emerge che l'Italia è ancora lontana da una rappresentazione di genere fedele alla distribuzione delle competenze riconosciute all'interno la società.

Tutti i dati, ovviamente, risentono sempre dei limiti del contesto per cui sono prodotti e gli elementi che qui vengono messi sul piatto non sono esenti dalle ambivalenze di cui Fraser ci metteva in guardia. Ma rappresentano le basi per un riconoscimento del modo in cui, in questo Paese, la differenza diventa diseguaglianza. Una consapevolezza da cui partire il 9 marzo, liquidando facili dichiarazioni di principio.

* Sull'argomento del sito, vedere:

UN'ALLEANZA CATTOLICA, UNIVERSALE, "EDIPALE"!!! LE MAJORASCATE: L'ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L'ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI' IN CIELO DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".

COSTANTINO, SANT'ELENA E NAPOLEONE. L'immaginario del cattolicesimo romano.

L'EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN'EREDITÀ ANCORA PENSATA ALL'OMBRA DELL'“UOMO SUPREMO” E DEL “MAJORASCATE”. Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"

LO SPIRITO CRITICO E LA CONOSCENZA AMORE. LA LEZIONE DEL '68 (E DELL'89).

GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare a un altro Abramo"

Le donne parlano - Ida Dominijanni

Introduzione all'incontro di Via Dogana 3: Le donne parlano domenica 14 gennaio 2018

Il movimento #metoo - slogan inventato dieci anni fa da una donna di colore, Tamara Burke - esplode negli Stati Uniti il ​​15 ottobre dello scorso anno, in seguito allo scandalo Weinstein, e si diffonde a macchia d'olio su scala quasi planetaria: due settimane dopo, a All'inizio di novembre, Newsweek conta due milioni e trecentomila tweet in 28 paesi - in primis USA, Canada, Brasile, Messico, Gran Bretagna, Svezia, Francia, Italia, Germania, Australia, India, Giappone, Sud Africa [ 1]. L'11 gennaio il New York Times elenca 78 uomini "di alto profilo" - appartenenti ai circuiti politico, mediatico, dello spettacolo, accademico - accusati dalle loro vittime di molestie o "cattiva condotta sessuale" e licenziati, o sospesi, o costretti alle dimissioni: tra loro sei politici, parlamentari o uomini di partito, e tra questi l'ex comico democratico Al Franken, forse il caso più controverso, e Roy Moore, candidato repubblicano al Senato, che ha perso le elezioni in Alabama anche a seguito di denunce di molestie sessuali e pedofilia [2]. Il quadro è parzialmente diverso in altri paesi. In India ad esempio - uno dei casi di #metoo più interessanti - il campo più colpito è quello accademico; sotto accusa, in particolare, alcuni dei più amati esponenti degli studi postcoloniali, da cui un dibattito incentrato soprattutto sul divario tra ideologie rivoluzionarie professate nei comportamenti pubblici e privati ​​[3]. In Francia invece – altro esempio – il dibattito sul caso più esplosivo, le accuse di molestie e stupro a Tariq Ramadan, è “deragliato” su quello sul rapporto tra cultura occidentale e cultura islamica [4].

Come sempre accade, un movimento femminile transnazionale dai contenuti sostanzialmente omogenei acquisisce pieghe e accentuazioni diverse a seconda dei contesti nazionali, e richiede quindi uno sguardo comparativo. La mia si baserà soprattutto sul confronto tra Stati Uniti e Italia, per un motivo ben preciso: molto di quanto sta accadendo nell'America trumpiana - compresa la scoperta, grazie al public speaking delle donne, di un diffuso sistema di scambio tra sesso e potenza. - era anticipato nell'Italia di Berlusconi; ma con effetti in parte simili, in parte - sembra - molto diversi. Da qui la strana sensazione di assistere a un déjà vu da una parte, qualcosa di nuovo dall'altra.

Negli Stati Uniti il ​​#metoo era/è un enorme e contagioso movimento di lingua femminile, aiutato potentemente dai social network, sostenuto dalla stampa illuminata, sostenuto sia dalla reciproca autorizzazione delle donne coinvolte, sia da una forte autorizzazione dell'opinione pubblica , che è riuscita a ribaltare una situazione che sembrava svantaggiosa per le donne - l'elezione di Trump e la sconfitta di Hillary Clinton - in una situazione di leadership femminile socialmente riconosciuta e sostenuta. La situazione politica è estremamente importante e dà una risposta alla domanda che imperversa sui media italiani: "Perché parlano adesso e non hanno parlato prima?".

Sappiamo che le donne parlano quando possono parlare: quando si può aprire una breccia nel regime del dicibile e dell'indicibile, e l'autorizzazione a dire la verità soggettiva prevale sul silenzio-assenso delle donne necessario al mantenimento dell'ordine patriarcale. Dopo la vittoria di Trump e la sconfitta di Hillary - candidata che il femminismo radicale considerava inadatta perché moderata e neoliberista, ma che tutto il femminismo ha difeso dagli attacchi misogini della sua avversaria - le donne negli Stati Uniti hanno reagito con un salto di prospettiva politica, ben visibile dalla marcia delle donne del 21 gennaio 2017, che con i suoi due slogan principali, inclusività e intersezionalità, annunciava già un femminismo deciso a prendere le redini di un più ampio movimento di opposizione. Scrive infatti, un anno dopo, il NYT: "All'epoca non era chiaro se fosse un momento o un movimento, ma ora è chiaro che le donne sono diventate le protagoniste emergenti di una doppia scommessa: sostenere l'opposizione a Trump. e lanciare una sfida culturale più ampia al potere maschile, come accaduto con il #metoo”[5].

Il singolo prendere la parola che ha fatto saltare il caso Weinstein non sarebbe stato possibile, dunque, senza l'autorizzazione simbolica del movimento che è già sceso in campo contro il presidente che si vanta di "prendere le donne dalle parti intime". Vale la pena notare che questa congiuntura politica conquista il femminismo la generazione di donne nate e cresciute all'insegna dell'individualismo neoliberista che le era rimasta finora più estranea, come sottolineano molte protagoniste del #metoo nelle loro testimonianze che si raccontano . scoperta della dimensione collettiva dell'azione politica [6]. Infine, fa parte di questa situazione il "diventare minoranza" degli uomini (bianchi), sotto i colpi della globalizzazione, della crisi economica, dei cambiamenti demografici e della perdita di privilegi innescati mezzo secolo fa dal femminismo storico: una condizione di completo declino compatibile come tanto con il contraccolpo del suprematismo bianco che ha portato Trump alla presidenza così come con il contraccolpo dell'aggressione sessuale "virile" svelata da #metoo.

Di fronte a questo "diventare minoranza" degli uomini bianchi, c'è il "diventare maggioranza" delle donne: per la prima volta, in una società come quella americana abituata a rappresentarsi per segmenti, le donne non sono percepite come una minoranza da tutelare ma come una potenziale maggioranza vincente, una forza di cambiamento da sostenere e fidare. All'autorizzazione femminile si aggiunge quindi una più ampia autorizzazione sociale, chiaramente percepibile attraverso il racconto incoraggiante e positivo che i media mainstream liberali hanno fatto del #metoo: il New York Times, il New Yorker, il Guardian, il Washington Post, The Nation - per citare solo quelli che ho cercato di seguire da qui.

3. Questo sostegno dell'opinione pubblica americana è il fatto che più contrasta con l'esperienza italiana. L'Italia non avrebbe dovuto stupirsi di #metoo, avendo sperimentato, solo pochi anni fa, l'analogo fenomeno di un inaspettato pubblico femminile che si esprimeva contro il dominante "dispositivo della sessualità". Mi riferisco, ovviamente, all'esplosione del Berlusconi-gate, dovuta alla denuncia di Veronica Lario e Patrizia D'Addario (e altre dopo di loro, tra cui Ambra Battilana, che troviamo oggi tra le donne che hanno denunciato Weinstein), del sistema di scambio tra sesso, denaro e potere che esisteva nelle residenze dell'ex premier e che decideva la distribuzione di posti di lavoro e candidature alle donne nelle sue televisioni e nelle sue liste elettorali. Già allora questa presa di parola si serviva di una parte dei media, vuoi perché segnati dalla sensibilità delle commentatrici femministe, vuoi perché, più semplicemente e strumentalmente, antiberlusconiani. Ma ha anche e soprattutto subito una fortissima dose di incredulità, discredito e ostracismo, non solo da parte dei media berlusconiani (oggi in prima fila anche contro #metoo, e con gli stessi argomenti di allora) ma anche nella ambienti di sinistra, e anche in quella parte di femminismo che considerava “poco degne” le donne che si erano ribellate dall'interno al sistema berlusconiano. Anche allora, che fosse in atto un terremoto che investiva verticalmente i rapporti tra donne e uomini, dalla sessualità al mercato del lavoro alle istituzioni di rappresentanza, si era forse compreso solo di fronte alla manifestazione del febbraio 2011 - le manifestazioni di piazza essendo l'unica forma in cui si registra ancora l'esistenza del femminismo. La risposta del circuito politico e mediatico mainstream è stata però, anche in campo di sinistra, momentanea, strumentale al rovesciamento di Berlusconi e inadeguata [7]. Soprattutto, non sembra aver seminato alcuna consapevolezza della crisi e della domanda di trasformazione di cui quei fatti erano il segno: si vede chiaramente oggi che Berlusconi torna in campo come simulacro di se stesso, ironia della sorte, al contemporaneamente all'esplosione del #metoo, e nessuno, nel circuito mediatico, ricorda che furono le donne prima della diffusione a farlo cadere nel 2011, né associa la rivolta delle donne italiane dell'epoca a quella planetaria di oggi. Anzi, si potrebbe sostenere, io sostengo, che la scarsa considerazione di cui gode #metoo in Italia sia la diretta conseguenza della rimozione della vicenda 2009-2011.

Commentando i fatti di allora e di oggi, resta vero quanto aveva scritto ben prima Luisa Muraro, in tempi ignari: «Sono numerosi gli indizi che il regime della verità ha finora operato, nelle sue successive forme storiche, sul mutismo femminile. una donna inizia a dire la verità, diventa una minaccia per il sesso opposto e per la civiltà, insieme. 'Virilità' è un nome, o forse il nome, di tutto questo”. La verità soggettiva femminile raccontata in pubblico ha una forza dirompente di cui forse noi stessi non siamo sufficientemente consapevoli.Tuttavia, il confronto tra i due eventi mostra anche che questo sconvolgimento, per essere efficace, ha bisogno di una certa risonanza, e deve quindi dotarsi di una strategia mediatica.La differenza tra l'Italia e il USA si sta rivelando, da questo punto di vista, abissale, anche nell'uso del linguaggio e negli stili che caratterizzano il racconto giornalistico, e non può essere attribuito solo al diverso valore che nella cultura americana e nella nostra i t ha “dire la verità al potere”: riguarda anche la peculiare misoginia dell'establishment intellettuale e giornalistico italiano, e la capacità o incapacità di associare cambiamento femminile e cambiamento sociale, e di fidarsi di loro. Dedicando la copertina della "persona dell'anno" per mettere a tacere gli interruttori, Time ha acutamente notato che il #metoo ha mostrato che i due principali obiettivi controversi di Trump, le donne e il giornalismo, hanno reagito, e sono in qualche modo "resuscitati", insieme. Si può ragionevolmente sostenere che fino a quando non avrà imparato a trattare in modo sensato le donne e il femminismo, il giornalismo italiano continuerà a sprofondare nell'abisso dell'ignoranza, della noncuranza, dell'autoreferenzialità in cui vive da anni.

4. La rimozione degli eventi del 2009-2011 spiega anche il ripetersi, in Italia, di molte argomentazioni contro i rompi silenzio di allora e di oggi. Qui riassumo brevemente i principali, maschili ma anche femminili, a volte presenti in maniera molto più pacata anche nel dibattito americano, proponendo per ciascuno di essi un capovolgimento di prospettiva.

a) (auto) vittimizzazione. Si va dal "sono vittime, ma sono conniventi da anni", scagliate contro Asia Argento soprattutto ma non solo dagli uomini, al timore, soprattutto femminile e femminista, che il #metoo possa sfociare in un processo regressivo di vittimizzazione e infantilizzazione delle donne. Alla prima obiezione ho già risposto: le donne parlano quando possono parlare. La seconda è più comprensibile, ma secondo me è infondata. È vero che il #metoo condivide con il femminismo di ultima generazione la tendenza ad una soggettivazione basata sulla denuncia della violenza subita piuttosto che sull'affermazione di un desiderio positivo, come fu per il femminismo degli anni Settanta; ed è vero che questa accentuazione della condizione di vittima rischia di riprodurla, oltre a riportare il discorso, dal paradigma della libertà a quello dell'oppressione femminile. Ma nel caso di #metoo mi sembra che il rischio di un attaccamento alla condizione di vittima sia molto inferiore alla spinta collettiva a uscirne, anche con una buona dose di gioia. Segnalo inoltre che in Italia il fronte che accusa oggi le attrici di vittimizzazione ritardata è lo stesso che ieri accusava le escort e le olgettine di non rappresentarsi vittime e di rivendicare il proprio lavoro come una scelta: a dimostrazione che la colpevolizzazione della vittima è sempre attiva , in entrambi i casi.

b) Il fantasma della “caccia alle streghe”, ovvero il rischio panico di una reazione “McCarthy” contro i maschi sospettati di “comportamenti inappropriati, a Hollywood e non solo. Il ricorso all'evocazione della caccia alle streghe per esprimere il terrore di un orco ha qualcosa di comico, e racconta quanto sia radicata la fantasia di una simmetria tra i sessi e una vocazione di ritorsione della rivoluzione femminista.Storicamente la caccia alle streghe (alle donne) è stata fatta dagli uomini, e oggi semmai è ancora uomini che lo fanno su altri uomini. Con modalità a volte violente e discutibili, come la cancellazione dai titoli dei film di attori fino ad allora acclamati, o la "maledizione" di opere d'arte che dovrebbero sopravvivere al comportamento sessuale dei loro autori. queste modalità segnalano che si è davvero aperta una crepa nel silenzio maschile, e questo è un fatto positivo.

c) Invocazione/elusione della legge e delle regole. Ampia e contraddittoria gamma di posizioni. Da un lato il #metoo viene attaccato perché agisce sulla base di una denuncia pubblica ma non giudiziaria del comportamento maschile, impedendo così l'esercizio del diritto di difesa: si invocano insomma i tribunali, temendo - come di recente Margareth Atwood [8] - la sostituzione dello stato di diritto con una giustizia "immediata" o con quello che in Italia chiamiamo "giustizialità". Oltre a ignorare la storica - e giustificata - sfiducia femminile nei confronti dell'esercizio maschile della giustizia, questo tipo di obiezione nasconde quello che è il valore, non il limite del #metoo: il suo carattere eminentemente politico, basato sulla presa di parola e su solidarietà, e non sull'uso dei tribunali. La domanda che il #metoo pone è politica, non criminale.

Dall'altro, però, e contraddittoriamente, lo stesso fronte teme che l'esito del #metoo possa essere quello di una regolamentazione forzata e di un controllo moralistico e normativo del comportamento sessuale [9] - esito da non escludere, visto che la tendenza alla codificazione dei comportamenti tipica della società americana. Tuttavia, va detto che questo regolamento, a volte troppo rigido, era in vigore negli USA anche prima del #metoo, ad esempio nelle università; il #metoo, semmai, ne segnala l'inutilità. C'è un eccesso di sessualità maschile che sfugge ovviamente ad ogni regola e ad ogni codice di comportamento: il merito di #metoo è di averlo evidenziato, riportando il fulcro del discorso dalle forme del politicamente corretto alla sostanza delle cose.

Più in generale, l'oscillazione tra invocazione ed elusione delle norme è sintomatica di una condizione tutta maschile, che sembra non poter fare a meno delle norme per regolare le pulsioni: le invoca mentre le evoca, e le evoca mentre le invoca. Vale per la sessualità, dove gli uomini sembrano voler delegare a un codice di condotta ciò che non sono in grado di regolare relazionalmente, come ben sappiamo, per tutti i campi della vita associata, la politica in primis.

d) Il fantasma della fine della seduzione e la morte della sessualità, con la relativa confusione tra seduzione e violenza, "anticipazioni" e molestie. Su questa confusione, brandita come una bandiera in Italia dal foglio e dalla stampa di destra e avallata in Francia dal testo firmato da Catherine Deneuve di cui tanto si è detto, ho poco da dire: a differenza di Deneuve, io non Non conosco nessuna donna che non sappia distinguere tra una cosa e l'altra, mentre mi arrendo all'osservazione che questa confusione è davvero nella mente di molti uomini, che di fatto la rivendicano come se il confine tra sesso e violenza erano effettivamente porose e facilmente attraversabili.

Il punto però non mi sembra questo, chiaramente strumentale, ma un altro. Rebecca Traister ha sostenuto, con buoni argomenti, che focalizzare il discorso sul terreno della sessualità significa eludere la domanda principale posta da #metoo, che a suo avviso riguarda il ricatto delle donne sul lavoro piuttosto che il sesso [10]. Si tratta, a mio avviso, di una falsa alternativa: la questione riguarda, direi, il ricatto delle donne nel lavoro attraverso il sesso, o l'utilizzo della sessualità come merce di scambio nel mercato del lavoro. E quindi il #metoo, esattamente come gli "scandali sessuali" di qualche anno fa in Italia, dice qualcosa sul "dispositivo della sessualità" del nostro tempo. Esattamente come allora, colpisce ancora una volta la miseria della sessualità maschile che risulta dalle testimonianze femminili: uomini che si scambiano potere con briciole di sesso come un massaggio sotto l'accappatoio o una masturbazione all'aperto. Se è così, il #metoo non annuncia la fine della seduzione e della sessualità, ma la registra, per aprire, si spera, una pagina più ricca e felice. Nella rinegoziazione dei rapporti tra i sessi che la donna che parla, credo che ci sia anche una rivolta contro questa miseria dello scambio eterosessuale.

  [1] www.newsweek.com/how-metoo-has-spread-wildfire-around-world

  [2] www.nytimes.com/interactive/2017/11/10/us/men-accused-sexual-misconduct-weinstein

  [3] www.dinamopress.it/news/abusi-silenzi-nellaccademia-postcoloniale-la-necessita-lettura-femminista-dei-saperi

  [4] www.newyorker.com/news/news-desk/how-the-tariq-ramadan-scandal-derailed-the-balancetonporc-movement-in-france?

  [5] www.nytimes.com/newsletters/2018/01/21/gender-metoo-moment

  [6] www.nytimes.com/2017/12/12/magazine/the-conversation-seven-women-discuss-work-fairness-sex-and-ambition.html

  [7] Per la ricostruzione dell'intera vicenda e dei suoi effetti, rimando al mio Il trucco. Sessualità e biopolitica alla fine di Berlusconi, Ediesse, Roma 2014.

  [8] www.theguardian.com/books/2018/jan/15/margaret-atwood-feminist-backlash-metoo

  [9] www.newyorker.com/news/our-columnists/sex-consent-dangers-of-misplaced-scale

  [10] www.thecut.com/2017/12/rebecca-traister-this-moment-isnt-just-about-sex.html

Le donne del cinema italiano contro le molestie: "Sfidiamo tutto il sistema"*

Oltre 120 attrici, registi, produttrici, donne che lavorano nella comunicazione dello spettacolo, hanno firmato una lettera a partire dal caso Weinstein. Un testo che non vuole puntare il dito contro un singolo 'molestatore' ma l'intero sistema di potere

Si chiama Common Dissent ed è una lettera manifesto firmata da 124 attrici e lavoratori dello spettacolo. Due mesi di incontri e discussioni tra un gruppo sempre più numeroso di donne, per intervenire con la forza di un collettivo e non lasciare che le testimonianze dei mesi passati rimangano solo voci isolate. Il primo passo verso una serie di iniziative per cambiare il sistema, non solo nel mondo dello spettacolo: “Uniti per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini”.

Dalle donne dello spettacolo a tutte le donne. Uniti per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che riflette un nuovo equilibrio tra donne e uomini.

Da qualche mese a questa parte, a partire dal caso Weinstein, in molti paesi le attrici, gli operatori dello spettacolo hanno preso parola e hanno cominciato a svelare una verità talmente ordinaria da essere agghiacciante. Questo documento non è solo un atto di solidarietà verso tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state aggredite, vessate, querelate, ma un doveroso atto di testimonianza. Vi ringraziamo perché sappiamo che ciò che ognuno di voi dice è vero e lo sappiamo perché è successo a tutti noi in modi e forme diverse. Ti supportiamo e in futuro sosterremo te e chi sceglie di raccontare la propria esperienza. Quando si tratta di molestie, ciò che si cerca di fare è, in primo luogo, limitare il problema a un singolo delinquente che si patologizza e funge da capro espiatorio. Si crea una momentanea ondata di indignazione che riguarda un solo regista, produttore, magistrato, medico, insomma un solo uomo di potere. Non appena l'ondata di indignazione si placa, il buon senso comincia a mettere in dubbio la veridicità di quanto detto dai “molestati” e comincia a porsi domande su chi sono, come si comportano, quale interesse li ha portati a parlare. Il buon senso comincia a mettere in discussione il libero e sano gioco della seduzione e gli evidenti meriti artistici, professionali o commerciali del molestatore che finirà per essere reintegrato nel sistema. Così facendo, questa macchina della repressione vorrebbe metterci a tacere e farci riflettere prima di aprire bocca, soprattutto se certe cose sono accadute in passato e quindi non valgono più.

Insomma, che non si perda più tempo a interrogarsi sulla veridicità delle parole delle donne molestate: mettiamole subito in galera, se non in galera in reclusione, se non in reclusione in convento, se non in convento a almeno tienili chiusi in casa. Questo e solo questo la farà smettere di parlare! Ma parlare è rivelare come le molestie sessuali vengono riprodotte da un'istituzione. Come questo diventa cultura, buon senso, un insieme di pratiche che dovremmo accettare perché così le cose sono sempre state e sempre saranno.

La scelta davanti alla quale ogni donna si pone sul posto di lavoro è: "Fai l'abitudine o esci dal sistema".

Non è la gogna mediatica che ci interessa. Il nostro non è e non sarà mai un discorso moralistico. Le molestie sessuali non hanno nulla a che vedere con il "gioco della seduzione". Conosciamo il nostro piacere, il confine tra desiderio e abuso, libertà e violenza.

Perché il cinema? Perché le attrici? Per due ragioni. La prima è che il corpo dell'attrice è un corpo che incarna il desiderio collettivo, e poiché in questo sistema il desiderio collettivo è il desiderio maschile, il buon senso vede in loro creature narcisistiche, volubili e vanitose, disposte a usare il proprio corpo. come merce di scambio per apparire. Le attrici come corpi pubblicamente esposti smascherano un sistema che va oltre il nostro mondo specifico ma riguarda tutte le donne nei luoghi di lavoro e non.

Il secondo motivo per cui questa accusa arriva dalle attrici è perché hanno la forza di poter parlare, la loro visibilità è la nostra cassa di risonanza. Le attrici hanno il merito e il dovere di parlare per questa battaglia per tutte quelle donne che vivono la stessa condizione sul posto di lavoro la cui parola non ha la stessa voce o forza.

Le molestie sessuali sono un fenomeno trasversale. È un sistema. Fa parte di una struttura sotto gli occhi di tutti, quella che contempla la maggioranza maschile assoluta nei luoghi di potere, la differenza di retribuzione per la stessa carica, la sessualizzazione costante e permanente degli spazi lavorativi. La disuguaglianza di genere sul posto di lavoro rende le donne, tutte le donne, a rischio di molestie poiché sono sempre soggette a un ricatto implicito. Succede alla segretaria, all'operaia, all'immigrato, allo studente, al laureato, alla colf. Succede a tutti.

Definire le molestie sessuali come un sistema, e non come la patologia di un individuo, significa minacciare la reputazione di questa cultura.

Non siamo le vittime di questo sistema ma siamo noi che ora abbiamo la forza di smascherarlo e ribaltarlo.

Non ci limitiamo a puntare il dito contro un singolo "molestatore". Contestiamo l'intero sistema.

Questo è il momento in cui abbiamo smesso di avere paura.

  1. Alessandra Acciai 2. Elisa Amoruso 3. Francesca Andreoli 4. Michela Andreozzi 5. Ambra Angiolini 6. Alessia Barela 7. Chiara Barzini 8. Valentina Bellè 9. Sonia Bergamasco 10. Ilaria Bernardini 11. Giulia Bevilacqua 12. Nicoletta Billi 13. Laura Bispuri 14. Barbora Bobulova 15. Anna Bonaiuto 16. Donatella Botti 17. Laura Buffoni 18. Giulia Calenda 19. Francesca Calvelli 20. Maria Pia Calzone 21. Antonella Cannarozzi 22. Cristiana Capotondi 23. Anita Caprioli 24. Valentina Carnelutti 25. Sara Casani 26. Manuela Cavallari 27. Michela Cescon 28. Carlotta Cerquetti 29. Valentina Cervi 30. Cristina Comencini 31. Francesca Comencini 32. Paola Cortellesi 33. Geppi Cucciari 34. Francesca D'Aloja 35. Caterina D'Amico 36. Piera De Tassis 38. Matilda De angelis 39. Orsetta De Rossi 40. Cristina Donadio 41. Marta Donzelli 42. Ginevra Elkann 43. Esther Elisha 44. Nicoletta Ercole 45. Tea Falco 46. Giorgia Far ina 47. Sarah Felberbaum 48. Isabella Ferrari 49. Anna Ferzetti 50. Francesca Figus 51. Camilla Filippi 52. Liliana Fiorelli 53. Anna Foglietta 54. Iaia Forte 55. Ilaria Fraioli 56. Elisa Fuksas 57. Valeria Golino 58. Lucrezia Guidone 59 Sabrina Impacciatore 60. Lorenza Indovina 61. Wilma Labate 62. Rosabell Laurenti 63. Antonella Lattanzi 64 . Doriana Leondeff 65. Miriam Leone 66. Carolina Levi 67. Francesca Lo Schiavo 68. Valentina Lodovini 69. Ivana Lotito 70. Federica Lucisano 71. Gloria Malatesta 72. Francesca Manieri 73. Francesca Marciano 74. Alina Marazzi 75. Cristiana Massaro 76. Lucia Mascino 77. Giovanna Mezzogiorno 78. Paola Minaccioni 79. Laura Muccino 80. Laura Muscardin 81. Olivia Musini 82. Carlotta Natoli 83. Anna Negri 84. Camilla Nesbitt 85. Susanna Nicchiarelli 86. Laura Paolucci 87. Valeria Parrella 88. Camilla Paternò 89. Valentina Pedicini 90. Gabriella Pescucci 91. Vanessa Picciarelli 92. Federica Pontremoli 93. Benedetta Porcaroli 94. Daniela Piperno 95. Vittoria Puccini 96. Ondina Quadri 97. Costanza Quatriglio 98. Isabella Ragonese 99. Monica Ra metta 100. Paola Randi 101. Maddalena Ravagli 102. Rita Rognoni 103. Alba Rohrwacher 104 Alice Rohrwacher 105. Federica Rosellini 106. Fabrizia Sacchi 107. Maya Sansa 108. Valia Santella 109. Savino castone 110. Greta Scarano 111. Daphne Scoccia 112. Kasia Smutniak 113. Valeria Solarino 114. Serena Sostegni 115. Daniela Staffa 116. Giulia Steigerwalt 117. Fiorenza Tessari 118. Sole Tognazzi 119. Chiara Tomarelli 120. Roberta Torre 121. Tiziana Triana 122. Jasmine Trinca 123. Adele Tulli 124. Alessandra Vanzi

DA SECOLI UN UOMO PI UNA DONNA HA PRODOTTO UN UOMO: LO SPIRITO CRITICO E LA CONOSCENZA DELL'AMORE.

CHI SIAMO DAVVERO?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA': UN NUOVO PARADIGMA.

elezioni americane. Un commento inedito della filosofa e femminista Rosi Braidotti. "Sì, la parola chiave è riradicarsi - superare questa sconfitta traumatica, imparare dai nostri errori e dagli errori degli altri per sviluppare una nuova pratica politica"

di Rosi Braidotti (locandina, 11.11.2016)

«È nostro dovere - scriveva Viginia Woolf su Le Tre Ghinee - pensare: che società è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie e perché dovremmo prendervi parte? “Non dobbiamo mai smettere di chiederci quale prezzo siamo disposti a pagare per far parte di questa civiltà e delle istituzioni maschili che la sostengono. Queste parole risuonano oggi con rinnovato vigore.

Bisogna sempre pensare contro il proprio tempo, soprattutto ora che ci troviamo a raccogliere i cocci di un sogno infranto: la prima donna ad essere eletta alla presidenza degli Stati Uniti. Come ha scritto Donna Haraway su Facebook: “Sì, pensavo che avremmo combattuto insieme nel contesto dell'amministrazione neoliberista e parzialmente progressista di Clinton. Pensavo che il cambiamento climatico, l'estinzione e molte altre cose sarebbero rimaste temi centrali. Devono ancora esserlo. Ma ora dovremmo unirci per combattere il fascismo, il razzismo sfrenato, la misoginia, l'antisemitismo, l'islamofobia, l'antiimmigrazione e altro ancora. Sento il cuore spezzarsi e ri-radicalizzarsi».

Sì, la parola chiave è ri-radicalizzare: superare questa sconfitta traumatica, imparare dai nostri errori e dagli errori degli altri per sviluppare una nuova pratica politica.

Derrida, invece, ricorda il carattere suicida della democrazia. Partirei dalla consapevolezza che la democrazia stessa non ci salverà, non in una fase storica di ascesa di nuovi populismi. Negli anni Trenta del Novecento, l'era di Virginia Woolf, ci fu un voto “democratico” per i partiti nazionalsocialisti, che poi distrussero le libertà più elementari e commisero enormi atrocità. La ripetizione di questi fenomeni solleva la questione del perché la democrazia rappresentativa non sia in grado di sviluppare anticorpi contro gli elementi reazionari. Penso ovviamente all'uso strumentale del referendum in Gran Bretagna, Olanda e Italia.

La vittoria di un misogino, incapace, maschilista e pericoloso razzista come Trump rende più evidenti che mai la vulnerabilità e i limiti della democrazia rappresentativa. Stiamo assistendo a una re-imposizione della retorica razzista della politica di emergenza e di crisi, Trump ha marciato proprio sul senso di insicurezza diffuso tra le classi meno abbienti americane. All'alba del terzo millennio, Bush aveva una strategia simile. Certo, il revival del populismo presenta importanti nuovi elementi, che necessitano di essere urgentemente indagati.

Tutti i populismi - di destra o di sinistra - sono uguali. A destra, gli appelli astratti alla nozione sacralizzata di autenticità culturale hanno sostituito la retorica del sangue e della terra. A sinistra, le classi devastate dal declino economico e dall'austerità hanno autorizzato l'espressione pubblica della rabbia dei bianchi - per lo più uomini: whitelash, backstroke dei bianchi.

Comportandosi come un gruppo etnico urbano in pericolo di estinzione, producono forme virulente di populismo ultranazionalista. Fanno del loro senso di vulnerabilità un vero cavallo di battaglia, come se le uniche ferite che contano fossero le loro. Queste ferite inferte alle classi più vulnerabili sono state interpretate come disincanto politico post-ideologico, ma non si può dire che il populismo di sinistra non sia così misoginistico e xenofobo. Mi oppongo fermamente a entrambe le versioni: tutti i populismi ruotano attorno al perno della supremazia maschile e della bianchezza. Basti pensare al sostegno entusiasta che un intellettuale come Žižek ha prestato a Trump nei giorni cruciali prima delle elezioni americane. La misoginia di Žižek è ben nota, tuttavia questa volta si è venduto a destra e dovrebbe essere ritenuto responsabile di tale deriva.

Certo, la sinistra ha enormi responsabilità: è anche grazie agli errori dei precedenti leader e delle vecchie coalizioni "democratiche" che i repubblicani hanno vinto. D'altra parte, il populismo di destra di persone come Trump e Johnson è una forma di manipolazione così sfacciata da essere nauseante, si esercita sulle persone più colpite dalle difficoltà economiche.

Questi manipolatori usano i migranti e tutte le "altre" soggettività come capri espiatori. Appellarsi a tali leader nazionalisti significa riprodurre quello che Deleuze e Guattari chiamavano microfascismo. E i microfascisti sono tanto di destra quanto di sinistra.

Sul piano filosofico, non posso fare a meno di interpretare queste elezioni attraverso il Nietzsche di Deleuze: siamo nel regime politico della "post-verità", alimentato da passioni negative come il risentimento, l'odio e il cinismo. Come insegnante credo che il mio compito risieda nel combattere con gli strumenti critici del pensiero, dell'insegnamento, ma anche della resistenza politica: non solo nelle aule, ma nella sfera pubblica.

Da filosofa credo sia necessario fare una critica ai limiti della democrazia rappresentativa, partendo dallo spinozismo critico e dall'esperienza storica dei femminismi. Non ci si può fermare all'antagonismo, non basta la fede nella dialettica della storia, bisogna elaborare una politica di immanenza e di affermazione, che richiede cartografie politiche precise dei rapporti di potere attraverso i quali siamo attraversati. Dobbiamo prima di tutto ri-radicalizzare noi stessi.

Nel mio lavoro ho sempre sostenuto che il dolore e la violenza portano all'immobilità, non sono forieri di cambiamento. All'indomani della vittoria di Trump, ne sono ancora più convinto: bisogna cercare forme costituenti di opposizione, capaci di dare vita a politiche concrete. Non nego che il processo in corso sia doloroso e difficile. Tuttavia, come ha sostenuto Hillary Clinton, la rabbia non è un progetto, deve trasformarsi in potere di agire, organizzato, diretto non solo “contro” ma anche “per”.

È chiaro a tutti che Trump è l'abisso della negatività della nostra epoca, che ci serviva tutto tranne la sua vittoria. Tuttavia, mi permetto di chiedere: e poi? Siamo contro l'alleanza tra neoliberismo e neofondamentalismo che Trump oggi, come Bush ieri, incarna pienamente. Ma dobbiamo metterci d'accordo su cosa vogliamo, cosa vogliamo costruire insieme come alternativa. Bisogna capire chi e quanti "noi" siamo.

La risposta, e la reazione a questi fenomeni, passa attraverso la composizione collettiva di pratiche legate all'etica dell'affermazione di alternative condivise e situate. Le passioni negative non sono il linguaggio che propongo come antidoto all'avvelenamento dei nostri legami sociali. Perciò mi chiedo: siamo capaci di immaginare pratiche e teorie politiche affermative, di creare orizzonti sociali di resistenza? Di quali strumenti ci dotiamo per non arrenderci al nichilismo e all'individualismo?

Abbiamo un'etica politica potente dalla nostra parte: da Spinoza a Haraway, da Foucault a Deleuze. Abbiamo pratiche all'altezza della sfida: da Riot Grrrl a Pussy Riot, passando per cyborg-eco-femministe e attiviste antirazziste e antispecifiche, innumerevoli ragazze irriverenti e cattive rivendicano l'autodeterminazione, creano nuovi immaginari e nuove forme di affettività . Muse ispiratrici di modelli di soggettività alternativi a quelli costruiti sull'isolamento, queste cattive ragazze ci insegnano che i modi di resistere alla violenza e alle contraddizioni del presente vanno di pari passo con la creazione di stili di vita capaci di assecondare i desideri di trasformazione.

Forse in Italia vedremo questo potere politico nelle strade il 26 novembre. E forse è arrivato il momento per la sinistra di imparare dal pensiero e dalle pratiche femministe, dai movimenti antirazzisti e ambientalisti. È inaccettabile che nel 2016 come nel 1966 i sedicenti intellettuali di sinistra diminuiscano la portata delle nostre lotte riducendole a politiche identitarie. È tempo di ri-radicalizzare la sinistra mostrandole gli effetti del suo stesso sessismo e la sua negazione della politica affermativa femminista.

RISPETTO E DIGNITÀ DELLE DONNE E DELLE 21 "MADRI DELLA REPUBBLICA": LA VIA PRINCIPALE PER UN'ALTRA POLITICA.

Il tema della IX edizione: Dignità

Dignità significa rispetto. Ma non, come nel mondo antico, per uno status particolare, che assicura un rango e una condizione di privilegio. Al contrario, la dignità nel mondo moderno implica il riconoscimento di ciò che abbiamo in comune come esseri umani, l'impossibilità di trattare gli altri come mezzi e non come fini.

Oggi si parla molto di dignità, ma in realtà è continuamente violata. Eppure è una delle parole d'ordine che ha determinato la rivoluzione costituzionale dell'ultimo dopoguerra. Nasce così il paradigma dello Stato di diritto democratico e sociale, che ha consentito - almeno nell'Europa occidentale - di includere grandi masse nella cittadinanza democratica degli Stati multiclasse, superando la guerra civile europea che aveva trascinato il mondo in un rovinoso conflitto totale. Non è un caso che la dignità sia al vertice della Carta tedesca, che si apre proprio con le parole: "La dignità umana è inviolabile". La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea si apre affermando lo stesso principio. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948 integra la forma tradizionale "tutti gli uomini nascono liberi ed eguali" aggiungendo "in dignità e diritti". L'arte. 3 della Costituzione italiana afferma che "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale", arricchendo la nozione di dignità di una connotazione sociale fondamentale: essa non deve essere riconosciuta solo nella persona in quanto tale, ma anche nel rapporto con gli altri. Ciò significa che non si tratta solo di affermare un astratto principio morale, ma di concretizzare il riconoscimento dell'uguale valore delle persone - soprattutto quando sono più esposte e vulnerabili - nei contesti in cui si svolge la loro vita: nei luoghi di lavoro , nei centri sanitari, a scuola, in famiglia. La vulnerabilità dell'essere umano implica la presa in carico da parte della legge, che avviene all'insegna dell'idea di dignità: questo significa dare più forza a chi ha di meno, prevenendo discriminazioni e prevaricazione, in tutte le forme in cui possono manifestarsi. . Le conseguenze economiche e sociali di questo approccio sono evidenti: nessun dogma tecnocratico o interesse geopolitico può giustificare un allentamento delle garanzie di dignità tale da minare la loro effettiva tutela. Ciò significa che le politiche pubbliche e le pratiche istituzionali che di fatto svuotano i diritti fondamentali, sia civili che sociali e politici, sono prive di legittimità, perché incompatibili con il costituzionalismo più avanzato, affermato nella seconda metà del Novecento, quello di dignità.

Nella società moderna, la dignità non indica un'essenza immutabile, forse da contrapporre polemicamente ad altre visioni della natura umana, ma le condizioni e le modalità per un esercizio della libertà in condizioni di effettiva eguaglianza. È il progetto di una società di democrazia costituzionale, difficile, mai compiuta, destinata a scontrarsi costantemente con le logiche del dominio - sia simbolico che materiale - che, opponendosi alla redistribuzione del potere sociale, ripropongono, anche nel mondo globale, un paradigma profondamente gerarchico. La lotta per la dignità è la lotta per i diritti come strumenti di liberazione sociale e personale: qui può essere la leva per evitare che il caos geopolitico ed economico in cui siamo gettati abbia esiti fatali per la democrazia. Soprattutto, l'Europa deve risvegliarsi e ritrovare le sue radici costituzionali, se non vuole condannarsi all'impotenza e alla disgregazione, e quindi essere fattore non di razionalità politica, ma di regressione civile. Le questioni dei rifugiati e delle migrazioni, quelle relative al tipo di risposta (se urgente o politica) da dare al terrorismo fondamentalista, le preoccupazioni legate alle guerre alle nostre frontiere (le cui conseguenze stanno entrando sempre più in Europa) sono legate a ai problemi della sicurezza sociale, agli effetti della disoccupazione (soprattutto giovanile) e della svalutazione del lavoro. Questo cortocircuito non solo continua ad alimentare la crisi, ma produce una radicale delegittimazione degli ordinamenti politici e costituzionali. La fusione di paure, rabbia sociale e sfiducia può portare ad avventure. A questo non si risponde chiudendosi sull'oligarchia, ma raccogliendo le sfide per la dignità sociale che vengono dal basso. Se la legge riavvolge questo filo, può contribuire a superare il divorzio governato-governante e a costruire un nuovo habitat per creare forme di liberazione (che saranno sempre parziali e temporanee, ma non per questo meno indispensabili) dall'oppressione del potere e del bisogno arbitrari. . : solo così è plausibile l'idea, altrimenti retorica e ingannevole, di una società in cui, davvero, tutti possano essere liberi.

Il Festival del Diritto 2016, attraverso la bussola della "dignità", avrà l'obiettivo di offrire un quadro critico delle grandi sfide che attendono il diritto nel tempo presente, che richiedono innovazioni coraggiose, ma nella profonda consapevolezza dei fondamenti, inscritti nel tradizione del razionalismo giuridico moderno, su cui costruire. Quelle sfide toccano ambiti molto concreti della vita delle persone, modificandone il vissuto: dal mondo del lavoro agli effetti delle migrazioni, dalla rivoluzione delle donne e dei diritti di genere alle trasformazioni della famiglia, dalla tutela dell'ambiente a quella della salute , dal funzionamento della giustizia nel potere dei media. Come ogni anno, il Festival sarà un'opera comune e aperta, che vedrà il contributo plurale di associazioni di volontariato, scuole, autorevoli studiosi (giuristi e non) e testimoni del mondo contemporaneo.

ISLAM E DONNE. "NON TEMERE IL VENTO AVVERSO, O FALCONE" (IQBAL). Discorso di Syeda Hameed

Colpire le DONNE?! DIO, UOMINI E DONNE: "DARABA". LALEH BAKHTIAR TRADUCE IL CORANO E SPOSTA LE MONTAGNE DEL SIGNIFICATO.

In Iran si insedia il nuovo parlamento: più donne che ayatollah

Secondo i calcoli dell'emittente Presstv, i riformisti moderati, sostenitori del presidente Rohani, hanno conquistato il 42% dei seggi. *

290 deputati del nuovo parlamento, il 10° Majlis della Rivoluzione Islamica, eletto con il voto popolare del 26 febbraio scorso, si sono insediati questa mattina a Teheran. Arrivarono in lussuose macchine nere, e giurarono tutti insieme, in coro, citando versetti del Corano, sotto la volta piramidale della moderna, gigantesca camera dell'assemblea legislativa.

Secondo i calcoli dell'emittente iraniana Presstv, i riformisti moderati, sostenitori del presidente Rohani, hanno conquistato il 42% dei seggi, i fondamentalisti - compresa la maggioranza dei contrari all'accordo nucleare - il 29%, gli indipendenti il ​​22, 41. Il restante 7% è occupato da minoranze religiose (2 armeni, un caldeo, un ebreo e uno zoroastriano) e da deputati che sono comparsi sia nelle liste riformiste che ultraconservatrici, cosa perfettamente legittima nella Repubblica islamica.

Ma la grande novità dell'Assemblea è il numero delle donne: diciotto deputati, un record mai raggiunto dalla Rivoluzione islamica.

Altro dato interessante è il crollo della presenza dei religiosi, ridotta ai minimi storici: solo sedici ayatollah sono riusciti a conquistare un seggio, ulteriore conferma di un Paese ormai in marcia verso la laicità. Questa mattina è stata la volta dei discorsi, dei messaggi, dei giuramenti, dell'inno nazionale, dei canti religiosi. Il presidente Hassan Rohani, dal palco dell'assemblea, ha rivendicato i successi del suo governo: dall'accordo nucleare al nuovo ruolo politico ed economico dell'Iran sulla scena mondiale, dalla battaglia contro l'inflazione, ridotta dal 40% al 10%, alla ripresa delle esportazioni di petrolio, che hanno ormai raggiunto i livelli pre-embargo.

Il messaggio inviato ai nuovi deputati, dall'ayatollah Ali Khamanei. La Guida suprema ha chiesto loro di "difendere l'economia della resistenza ei valori islamici" dell'Iran e di "costituire un baluardo contro i progetti e le eccessive pretese dell'arroganza internazionale". Un invito a posizioni isolazioniste. Sulla carta, la nuova assemblea dovrebbe essere in grado di esprimere una maggioranza moderata e filo-Rohani, a differenza della nona Majilis, dove dominavano i falchi ultraconservatori e facevano di tutto per mettere i bastoni tra le ruote al governo.

Va ricordato che in Iran non esistono partiti politici organizzati, la politica è molto fluida e la punta dell'ago della bilancia potrebbero essere gli indipendenti. Il primo banco di prova per sondare i veri rapporti di forza in Parlamento sarà l'elezione del Presidente dell'Assemblea: i due principali sfidanti sono il leader della formazione moderata-riformista, Mohammad Reza Aref, e il presidente dell'ex Majlis, Ali Larijani, un conservatore fedele al Leader Supremo e allo stesso tempo non ostile all'accordo nucleare. In caso di vittoria di Aref, Rohani potrebbe contare su un Parlamento amico, in grado di sostenerlo nella sua politica di riforme economiche e politiche e di trascinarlo nella volata per la rielezione a presidente nel voto del 2017.

Il 10° Majlis resterà in carica fino al 27 maggio 2020. La sua attività legislativa è sotto il controllo del Consiglio dei Guardiani, organo giuridico religioso nominato dalla Guida Suprema, che ha il potere di selezionare gli aspiranti deputati e di respingere tutte le leggi "non in accordo con i valori islamici".

LA CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL'UOMO A DIMENSIONE "ONE". Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.

Uscire dallo "stato di minorità" non significa mangiare un "piatto di lenticchie"... né "sposare" il bambino!!!

MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE UN GRANDE PROBLEMA PER LA CHIESA....

Donne nella Chiesa, il Papa si apre al diaconato femminile *

È il primo grado dell'ordine sacro, seguito dal sacerdozio e dall'episcopato. I diaconi possono amministrare alcuni sacramenti come il battesimo e il matrimonio. Respinta da Giovanni Paolo II, la possibilità prefigurata da Francesco avvicinerebbe la Chiesa cattolica a quella anglicana che ha preti e vescovi donne. Uno "spazio aperto", come avrebbe voluto il cardinale Martini

Papa Francesco ha annunciato che istituirà una commissione di studio sul diaconato femminile nella Chiesa primitiva, ritenendo che le diaconesse siano "una possibilità per l'oggi".

Se all'annuncio seguirà una decisione, per la prima volta in questo millennio si riaprirà una prospettiva che si riteneva definitivamente chiusa da una decisione di Giovanni Paolo II. Il diaconato, infatti, è il primo grado dell'ordine sacro, seguito dal sacerdozio e dall'episcopato. I diaconi possono amministrare alcuni sacramenti tra cui il battesimo e il matrimonio e in alcuni paesi ci sono intere regioni in cui ora sostituiscono i sacerdoti nella guida delle comunità parrocchiali.

L'apertura prefigurata da Francesco avvicinerebbe la Chiesa cattolica a quella anglicana dove ci sono donne sacerdote e vescovi. Al Sinodo si è parlato di questo “tema audace” con l'intervento del reverendo Jeremias Schroder, presidente Archabat della Congregazione benedettina di Sant'Ottilia.

«Sul diaconato femminile la Chiesa non ha detto no», aveva già spiegato nel 1994 il cardinale Carlo Maria Martini, commentando lo stop di Giovanni Paolo II alle donne sacerdote: una dichiarazione solenne, a un passo dai crismi dell'infallibilità papale e alla quale il Papa Francesco ha detto più volte che vuole attenersi ad essa.

Nonostante quel “no”, per il porporato vi erano ancora “spazi aperti”, perché il discorso sul ruolo delle donne avrebbe potuto continuare a partire dal diaconato, “che il documento non cita, quindi non esclude”. Questo perché, ha avvertito il cardinale, è necessario evitare che l'ecumenismo si blocchi proprio sulla questione delle donne. Il diaconato è il primo grado di consacrazione "ufficiale" che precede l'ammissione al sacerdozio e nelle prime comunità cristiane era aperto anche alle donne. Per Martini, quindi, non sarebbe stato male riaprire anche alle donne, pur ammettendo che sul sacerdozio femminile «il documento pontificio è decisivo, non consente replica né riformabilità».

“Credo però che il vero compito di fronte a questa lettera – ha osservato il cardinale – non sia una meticolosa esegesi dal punto di vista dogmatico, ma sia vedere come, con questa lettera e nonostante le difficoltà che può suscitare, sia ancora possibile un cammino di dialogo ecumenico, e soprattutto un cammino in cui mostrare a tutto campo la presenza e la missione delle donne, rispetto a un documento di questo tipo, che sembra chiudere un cammino, come altri in passato, mentre in realtà hanno favorito un ripensamento teologico e una pratica che ha superato alcuni ostacoli e ha fatto comprendere meglio la natura e la forza della presenza delle donne nella Chiesa, penso che uno spazio rimanga aperto».

Infatti, l'argomento principale per il "no" al sacerdozio femminile è proprio l'assenza delle donne nel cenacolo al momento dell'istituzione dell'Eucaristia. Ma una recente decisione di papa Francesco l'ha già in parte “smantellata”: quella sull'ammissione delle donne alla lavanda dei piedi che il Papa aveva già attuato il primo giovedì santo del suo pontificato, recandosi al Casal del Marmo carcere minorile, decise che quel giorno anche le ragazze potessero partecipare come protagoniste al rito della lavanda dei piedi, che quest'anno diventa una possibilità per tutte le parrocchie del mondo.

È significativo che papa Francesco abbia scelto l'incontro odierno nell'Aula Nervi con circa 900 superiori generali degli istituti religiosi femminili per affrontare questo tema così decisivo. Le suore gli hanno chiesto in una sessione di domande e risposte perché la Chiesa esclude le donne dal servizio diaconale.

E uno ha aggiunto "Perché non costruire una commissione ufficiale che possa studiare la questione?". Il papa ha risposto di averne parlato una volta, qualche anno fa, con un "buon, saggio professore", che aveva studiato l'uso delle diaconesse nei primi secoli della Chiesa e gli aveva detto che non è ancora del tutto chiaro cosa ruolo. avevano. E soprattutto se "sono stati ordinati o no?" Rimaneva un po' poco chiaro quale fosse il ruolo e lo status delle diaconesse a quel tempo. “La costituzione di una commissione ufficiale potrebbe studiare la questione?”, ha chiesto ad alta voce il Papa. E poi ha risposto: "Penso di sì. Sarebbe bene che la Chiesa chiarisse questo punto. Sono d'accordo. Parlerò per fare qualcosa di simile. Accetto la proposta. Mi sembra utile avere una commissione che chiarisca bene ".

RISPETTO E DIGNITÀ DELLE DONNE E DELLE 21 "MADRI DELLA REPUBBLICA": LA VIA PRINCIPALE PER UN'ALTRA POLITICA.

"DELLA TERRA, IL COLORE BRILLANTE". LA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO - "fino alla Grande Guerra le donne avevano diritto di voto solo in quattro Paesi - Nuova Zelanda, Norvegia, Australia e Finlandia -; in Italia lo ottennero nel 1946 e in Svizzera solo nel 1974".

Settant'anni di voti per le donne

di Giulia Siviero (Il Post, 10 marzo 2016)

Dire alle mie figlie che quando è nata la nonna le donne non potevano votare mi fa sempre una certa impressione. Nella classifica mondiale dei Paesi che per primi hanno approvato il suffragio femminile, in testa c'è la Nuova Zelanda, 1893, poi Australia e Paesi scandinavi, Russia (con la Rivoluzione d'Ottobre), Gran Bretagna e Germania dopo la Prima Guerra Mondiale e Stati Uniti nel 1920. In Italia le donne erano considerate cittadine come gli uomini solo alla fine dell'ultima guerra, il 10 marzo di settant'anni fa.

La conquista dei diritti politici non fu, come spesso si dice e si legge, una progressiva concessione o un'estensione dei principi liberali e democratici, ma il risultato di una lunga e dura battaglia. La domanda di accesso alla sfera pubblica - che fin da Aristotele era stata costruita e definita sulla base dell'espulsione delle donne - provocò una tenace resistenza per una ragione specifica: l'esclusione delle donne dalla vita pubblica era legata alla loro sottomissione nella sfera privato. Per questo motivo il diritto di voto è stato negato alle donne per più di un secolo e mezzo. E così la loro battaglia per quel diritto specifico è andata ben oltre.

La storia di questa battaglia inizia con un paradosso: Francia, 1789, rivoluzione. Le donne borghesi e le donne del popolo partecipano alla presa della Bastiglia, protestano, muoiono. E parlano. Al teatro Olympe de Gouges mette in scena eventi rivoluzionari contemporanei e nel 1791 propone di rendere universali i diritti proclamati all'Assemblea nazionale estendendoli anche alle donne ("Uomo, sei capace di avere ragione? È una donna che ti chiede il domanda") . Nel 1793 finisce sulla ghigliottina. Al momento della fondazione dei moderni sistemi rappresentativi fu subito chiaro che l'universalismo in base al quale venivano dichiarati i diritti non era affatto universale, ma riguardava solo gli uomini. Il nuovo mondo aveva qualcosa in comune con il vecchio: il mantenimento di quella situazione privilegiata che i rivoluzionari volevano cambiare.

La prima via italiana per riconoscere un suffragio veramente universale è stata quella giudiziaria. Il 17 marzo 1861, la Carta fondamentale della nuova Italia unita divenne lo Statuto Albertino che all'articolo 24 diceva:  «Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali davanti alla legge. Tutti godono in egual modo dei diritti civili e politici, e sono ammissibili a cariche civili e militari, fatte salve le eccezioni determinate dalle Leggi».

Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non esplicitamente. La riforma elettorale del 1882 concesse il diritto di voto a una parte consistente del movimento operaio, portando l'elettorato dal 2,2 per cento della popolazione a circa il 7 per cento, ma continuando a trascurare le donne. Così la successiva legge del 1895. Nel frattempo, nel 1877, Anna Maria Mozzoni, milanese, femminista e socialista, riferendosi ad esperienze inglesi, francesi e americane, presentava al governo una petizione "per un voto politico per le donne", la prima di una lunga serie da respingere.

Nel 1881 Anna Maria Mozzoni e Paolina Schiff fondarono a Milano la "Lega per la promozione degli interessi delle donne", nel 1903 diverse associazioni femminili aderirono al Consiglio nazionale delle donne italiane affiliate al Consiglio internazionale delle donne e nel 1905 si formarono comitati pro suffragio donne che promuovono l'iscrizione nelle liste elettorali delle donne in possesso dei requisiti previsti dalla legge. Il 26 febbraio 1906 Maria Montessori sul quotidiano La vita scrive un articolo in cui ribadisce l'invito specificando che la legge non pone alcun divieto esplicito. Nello stesso anno le Corti d'Appello di sei città (Firenze, Palermo, Venezia, Cagliari, Brescia e Napoli) pronunciarono altrettante sentenze per respingere il riconoscimento dell'elettorato politico femminile che alcune commissioni elettorali provinciali avevano accettato.

Il 4 agosto 1906 la Corte d'Appello di Firenze affermò, ad esempio, che un'interpretazione estensiva dell'articolo 24 dello Statuto avrebbe portato alla conclusione che "le donne non sono solo elettriche ma anche ammissibili". E così:

“Potrebbe succedere che si formasse in Parlamento una maggioranza di donne, che costituendosi contro il sesso maschile, costringesse il Capo dello Stato, scrupoloso osservatore delle buone norme costituzionali, a scegliere tra di lui i consiglieri della Corona, e così dare al mondo civile lo spettacolo nuovo e bizzarro di un governo di donne, con quale prestigio e utilità del nostro Paese è facile che tutti si immaginino».

A sorpresa, la Corte d'Appello di Ancona presieduta da Ludovico Mortara è stata l'unica ad accogliere la richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali. Era stato presentato da nove docenti di Senigallia e uno di Montemarciano e siccome era inedito tutti, giuristi e giornali, ne avevano parlato. Al terzo e ultimo grado di giudizio, invece, la sentenza è stata ribaltata: non in base a quanto diceva l'articolo 24, ma in base a quanto non diceva. Cioè, sulla base di un'usanza radicata.

Fallito il processo giudiziario, si tentò nuovamente la riforma legislativa: nel 1906 Anna Maria Mozzoni e altre 25 donne presentarono una nuova petizione. Il dibattito ebbe luogo alla Camera nel febbraio 1907 ma si concluse ancora una volta con un rifiuto.

Il 23 aprile 1908 si svolse a Roma il primo Congresso nazionale delle donne italiane. La presidente Gabriella Rasponi Spalletti ha esordito così: «Il futuro è per il trionfo delle idee, non dei partiti. Tutti i pregiudizi sulle donne scompariranno se il Congresso riuscirà a dimostrare che il lavoro comune è possibile anche militando in campi diversi”. Il Congresso è durato diversi giorni ed è stato un tentativo di tradurre le richieste del femminismo in specifici progetti di riforma da sottoporre al governo e al parlamento. Il diritto di voto è stato l'argomento dominante e più discusso, ma sono state affrontate le questioni del diritto allo studio e del diritto di famiglia; si è parlato di divorzio, diritto alla paternità delle madri single e trattamento abusivo dei tribunali nei confronti delle donne vittime di violenza sessuale; ha proposto di introdurre l'educazione sessuale nelle scuole e di abrogare il matrimonio riparatore in caso di stupro.

L'unità è crollata su un tema estraneo ai contenuti specifici del Congresso: la questione dell'educazione religiosa nelle scuole pubbliche. Negli accordi precedenti le riunioni si era deciso che quella questione non doveva essere discussa, ma durante i lavori le donne furono indotte da pressioni esterne a prendere posizione: la questione fu messa ai voti e quel giorno la stanza era gremita di uomini che chiesto di votare dicendo che avevano pagato 10 lire per la tessera e che quindi ne avevano diritto: "Noi donne paghiamo le tasse, voi uomini non ci concedete il voto per questo", ha detto loro dalla tribuna Maria Montessori. Ma gli uomini votarono, prevalse il rifiuto dell'insegnamento religioso e su questo cadde l'unità delle donne. Le molte forze che il Congresso era riuscito a radunare si dispersero.

Nel 1912 fu introdotto il suffragio universale maschile e per la prima volta fu applicato nelle elezioni politiche del 1913. La guerra, però, interruppe la lotta delle donne. Il 9 maggio 1923 Mussolini, al governo da un anno, parlò di suffragio femminile e promise alle donne un voto amministrativo. In quello stesso discorso rassicurò gli uomini dicendo:

"Penso che concedere il voto alle donne inizialmente nelle elezioni amministrative e poi nelle elezioni politiche non avrà conseguenze catastrofiche come credono alcuni misoneisti, ma avrà con ogni probabilità conseguenze benefiche perché le donne porteranno a questi vivi diritti le sue fondamentali qualità di misura, equilibrio e saggezza».

Nel 1925 entrò in vigore una legge che concedeva ad alcuni italiani la possibilità di eleggere amministratori locali. Tre mesi dopo, una riforma sostituì i sindaci con il podestà e annullò il voto amministrativo in generale. Le prolifiche madri dello stato fascista furono escluse dalla pubblica amministrazione e scoraggiate dall'istruzione superiore, fu proibita la vendita di contraccettivi e furono stabilite ricompense per le famiglie numerose. Molte femministe e molte militanti del Congresso del 1923 fuggirono all'estero. Poi la guerra, di nuovo. E un nuovo attivismo, appena formato il Governo di Liberazione Nazionale. La prima richiesta di suffragio femminile è stata della Commissione per il voto alle donne dell'UDI, l'Unione delle donne italiane nata su iniziativa di alcune esponenti del movimento antifascista: è stata sostenuta dai rappresentanti dei centri femminili dei vari partiti e dal voto favorevole nazionale in cui confluivano le principali organizzazioni.

Il 30 gennaio 1945, con l'Europa ancora in guerra e l'Italia settentrionale sotto l'occupazione tedesca, il suffragio femminile fu discusso durante una riunione del Consiglio dei ministri, che fu frettolosamente approvato come qualcosa di ovvio o, a quel punto, inevitabile. . Il decreto è stato emanato il giorno successivo: potevano votare le donne di età superiore ai 21 anni, ad eccezione delle prostitute che esercitavano "la prostituzione al di fuori dei locali autorizzati". Nel decreto, però, veniva dimenticato un dettaglio significativo: l'eleggibilità delle donne che fu stabilita con un successivo decreto, numero 74 del 10 marzo 1946.

Sui giornali se ne è parlato molto poco, ad eccezione dell'Unità che ha dedicato alla notizia un editoriale piuttosto ambiguo:

"Questo evento è una grande vittoria per la democrazia, poiché una nuova forza politica viene introdotta nella vita nazionale (...) È una scelta molto valida di nuovi leader, che, in particolare per quanto riguarda i problemi della vita cittadina, della vita locale , hanno l'enorme vantaggio di conoscere e sentire più direttamente i bisogni più immediati dei singoli e delle famiglie.Un'ondata di sano buon senso entrerà sicuramente nella vita politica, e un maggiore spirito di concretezza entrerà con le donne nella vita amministrativa (...) Noi comunisti siamo stati e siamo ardenti difensori della partecipazione delle donne alla vita politica (...) Ma (...) sarebbe un grave errore supporre che il senso di responsabilità acquisito nella lotta quotidiana contro le difficoltà della vita possa pienamente avvenga nella coscienza politica (...) Le militanti democratiche sapranno dare alle donne italiane una coscienza democratica, potranno valorizzare politicamente le grandi qualità naturali che le donne porteranno nella vita pubblica”

La prima occasione di voto per le donne furono le elezioni amministrative del 1946: risposero in massa, con un'affluenza che superò l'89 per cento. Ai consigli comunali sono stati eletti circa 2.000 candidati, la maggioranza nelle liste di sinistra.

Stessa partecipazione al referendum del 2 giugno. Gli eletti alla Costituente sono stati 21 (su 226 candidati), pari al 3,7 per cento: 9 democristiani, 9 comunisti, 2 socialisti e uno dell'uomo comune. Cinque deputati sono poi entrati a far parte della "Commissione dei 75", incaricata dall'Assemblea di redigere la nuova proposta di Costituzione. La specificazione della parità di genere inserita nell'articolo 3 si deve al socialista Merlino.

Di fronte a questa novità uomini e giornali hanno avuto atteggiamenti diversi. Il Messaggero, ad esempio, ha raccontato alla deputata eletta più giovane chiamandola "deputatessa" (lo sforzo è apprezzato) e descrivendo i suoi riccioli:

"Teresa Mattei, la più giovane deputata" "La più giovane deputata italiana alla Costituente ha tanti bei riccioli castani e due bei occhi lucidi e ha venticinque anni: è nata a Genova, ha studiato a Milano, e a Firenze ha laureato in filosofia, durante la lotta clandestina».

Il primo intervento di un deputato della prima legislatura su una questione non femminile è stato invece raccontato da Anna Garofalo:

“Per la prima volta, da quando le donne si sono sedute in Parlamento, una deputata, Marisa Cinciari Rodano, del PCI, è intervenuta nel dibattito di politica estera tra i giornalisti c'è stato un movimento che si potrebbe definire di sfiducia preventiva. Non era una reazione politica (...) ma era difesa dal fatto che parlasse una donna. Fu così che (...) molti furono presi dal desiderio impellente di bere un caffè e altri andarono a fumare nel corridoio, tornando di tanto in tanto a scambiare parole non troppo nuove a bassa voce sulle pentole che il oratore avrebbe trascurato di bollire e sui calzini che, ovviamente, non aveva potuto rammendare».

CRISI POLITICA E SACRA FAMIGLIA [uniti]!!! NON SOLO LA TEOLOGIA (E LA FILOSOFIA), MA NEMMENO LA SOCIOLOGIA PU DISTINGUERE TRA FAMIGLIA DEMOCRATICA E FAMIGLIA DI "MAMMASANTISSIMA" E "MAMMONE"... - "AMORALE FAMILISMO" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.

Confesso, ero tentato di bloccare il film su mia madre.

Dopo lo sconcertante intervento di Riina junior a Porta a porta, grazie a Rai 1, pubblichiamo la lettera di Giovanni Impastato.

Caro Direttore Generale della Rai, come certamente saprai, mio ​​fratello, Peppino Impastato, è stato brutalmente ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978. Dopo il film I Cento Passi di Marco Tullio Giordana, due anni fa sono stato coinvolto da Matteo Levi della casa produzione "11 Marzo Film" nell'ambito del progetto di un film che doveva raccontare il coraggio di mia madre, Felicia Bartolotta che, con orgoglio e tenacia, ha lottato contro tutto e tutti per ottenere verità e giustizia.

Il film dedicato a mia madre è stato realizzato ed è stato prodotto da una delle reti sotto la sua direzione, Rai 1, la stessa che nella trasmissione “Porta a Porta” ha trasmesso l'intervista al figlio di Totò Riina. Questo figlio che, a differenza di Peppino, mia madre e tutta la nostra famiglia, non rinnega un padre mafioso, anzi lo difende e nega ogni sentenza pronunciata nei suoi confronti.

Tutti, compresa lei, conoscono la storia del criminale responsabile di vari massacri e dell'uccisione di tanti padri e figli innocenti. Ritengo inconcepibile che si sia concesso di dare spazio a questa persona senza pensare alle conseguenze di un messaggio negativo e diseducativo, soprattutto verso le nuove generazioni. Una trasmissione lontana anni luce dal "obbligo di cronaca" e che può essere fatta risalire piuttosto a un'operazione editoriale di basso livello per l'uscita di un libro che non merita di essere promosso, tanto meno dalla nostra tv pubblica.

Non credo - come sostiene Bruno Vespa - che questo sia il modo per conoscere o studiare il fenomeno. Ma è piuttosto un modo per aumentare il pubblico a costo di calpestare la dignità di tante persone - come noi - che hanno pagato un prezzo altissimo con il sacrificio dei propri cari. Non possiamo giocare con il sangue delle nostre vittime cercando con la forza lo scoop e suscitando la curiosità del pubblico con operazioni di cattivo gusto fino a mitizzare la mafia.

Confesso che, dopo quanto accaduto, faccio molta fatica ad accogliere con entusiasmo il film su mia madre, nel rispetto del lavoro e del valore del regista Gianfranco Albano, degli sceneggiatori Monica Zappelli e Diego De Silvia e di un interprete straordinario. come Lunetta Savino. E vi confesso anche che il mio sconcerto è stato così tanto in queste ore che ho pensato ad un avvertimento alla vostra compagnia di mandare in onda il film. Ma non far conoscere al pubblico la storia di mia madre sarebbe come darla a un'informazione malata di protagonismo che, per affermarsi, è anche pronta a calpestare il dolore dei parenti di tante vittime innocenti.

Le storie di mia madre, di Peppino, di tutti noi e di tanti altri, compresi quei figli di mafia, che hanno fatto la scelta coraggiosa di rinnegare i propri padri (una tra tutte Rita Atria), meritano di essere raccontate. Siamo la linfa vitale di questo Paese e, finché vivremo, lotteremo per sconfiggere il potere mafioso, nonostante questi indegni spettacoli che i media ci offrono.

In linea di principio, la Costituzione: la Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti. Per un riorientamento antropologico, e teologico-politico.... IL RISPETTO E LA DIGNITÀ DELLE DONNE E LE 21 "MATRICI DELLA REPUBBLICA": LA VIA PRINCIPALE PER UN'ALTRA POLITICA.

Gli operosi maestri di Maria Rosa Cutrufelli

NARRATIVA. La scrittrice presenta oggi alla libreria Tuba di Roma «Il giudice delle donne». Cosa accadde nel 1906 quando dieci insegnanti chiesero di essere iscritti nelle liste elettorali

di Barbara Bonomi Romagnoli (locandina, 17.03.2016)

La voglia di futuro che vorremmo si respira nel nuovo romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, Il giudice delle donne, appena edito da Frassinelli (pp. 264, euro 18). Una storia vera del primo Novecento con la forza dell'attualità, nel 70° anniversario del voto alle donne in Italia, e la prospettiva di un'impresa ancora da compiere, perché «la nostra libertà è così precaria. Basta un respiro e ne perdiamo le tracce», commenta Alessandra, la giovane insegnante esuberante che persegue l'emancipazione, anche a costo di finire in una struttura fatiscente, che ieri come oggi, alcuni si ostinano a chiamare scuola.

Siamo nel 1906 a Montemarciano, paese della provincia di Ancona affacciato sull'Adriatico, e qui dieci insegnanti, guidati da Luisa, la moglie del sindaco socialista, accolgono l'appello di Maria Montessori per chiedere il diritto di voto, quel suffragio universale valido in realtà solo per i maschi. Una storia che Cutrufelli «ha riscoperto, dopo che ne avevo letto nei libri delle nostre storiche (storiche femministe, intendo) - dice l'autrice - ma non mi ero mai soffermato sull'importanza, anche simbolica, di questo episodio, forse perchè si trattava sempre di poche righe, quindi è stata una sorpresa quando, passando per Senigallia, ho visto la targa commemorativa sul muro del municipio. Wow, mi sono detto, ma qui abbiamo la prima elettrica in Storia europea, anzi mondiale, perché solo in Australia e Nuova Zelanda le donne avevano già vinto questa battaglia. Fu in quel momento che mi ripromisi di raccontare quella storia". E per farlo si immerse nella ricerca e nello studio di documenti e testi dell'epoca, ricostruendo nella trama e nel lessico i toni di quegli anni tesi alla conquista di una modernità che sembrava a portata di mano, prima di cadere nell'orrore della prima guerra. mondo e fascismo. Una scrittura come sempre profonda e ariosa allo stesso tempo, quella di

Maria Rosa Cutrufelli, capace di tratteggiare le pieghe di sentimenti e paesaggi sociali in movimento. Racconta degli anni in cui le donne iniziarono ad uscire di casa, e per farlo alcune di loro diventarono maestre, mestiere che "faceva l'Italia", arrivando nei luoghi più remoti per far letterato il paese e scontrandosi con una società contadina dove il lavoro minorile era la regola: «il vero rivale degli insegnanti è il lavoro nei campi. L'alfabeto viene dopo la terra, non c'è rimedio», pensa la protagonista mentre consegna le pagelle ai pochi rimasti, sì, perché quelli sono anche gli anni della grande emigrazione verso le Americhe. Il padre di Teresa è andato fino in Argentina, una bambina che è diventata muta e che ha custodito un segreto nel suo cuore che scopriremo leggendo.

Non solo, il 1906 è anche l'anno dell'Expo di Milano e di chi lo racconta, come Adelmo, giovane cronista di provincia che ha seguito con attenzione la storia dei "maestri", così li chiama senza rendersi conto della svalutazione insita nel Fine, andando a trovare anche il “giudice delle donne”, quel Lodovico Mortara presidente della Corte d'Appello che dirà che le donne hanno diritto di iscriversi alle liste elettorali. Un giudice controcorrente, una sentenza che farà discutere sia i conservatori che i progressisti dell'epoca e che cercò di dire, all'inizio del Novecento, che «la legge è statica, ma la giurisprudenza è dinamica. Le consuetudini cambiano ed è il lavoro del giudice che dà vita alla legge».

Una legge, anche non scritta, che vorrebbe le donne lontane dalla politica, ancora una volta, ieri come oggi. Il rapporto tra le donne e il voto, e la rappresentazione che ne consegue, non è mai stato un rapporto facile, forse perché «non si tratta solo di un diritto di libertà, come dicono i giuristi - sottolinea Cutrufelli - ma anche di un potere che dà autonomia e capacità negoziale, ed è proprio questo 'potere' che la cattiva politica vuole erodere e ridurre al minimo».

Le maestre marchigiane non hanno vinto completamente la loro battaglia ma hanno aperto un passaggio fondamentale alla speranza di cambiamento: 110 anni dopo quel fermento sembra essersi trasformato in una palude, compresi i diritti delle donne. Ma se volessimo ricominciare e riprendere quel filo, Cutrufelli non ha dubbi e risponde con le parole di Emmeline Pankhurst, suffragetta inglese, "mai sottovalutare la tua forza..." e continuare a raccontare le storie che nessuno racconta.

UN'ALLEANZA CATTOLICA, UNIVERSALE, "EDIPALE"!!! LE MAJORASCATE: L'ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L'ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COS IN CIELO. DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".

UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e "Giuseppe"!!! OLTRE "Edipo", "LA CONOSCENZA DELL'AMORE". IN USCITA DALLO STATO DI MINORANZA, OGGI.

LA CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL'UOMO A DIMENSIONE "ONE".

Resta un problema più ampio del miserabile maschilismo dei politici, che dovrebbero avere l'astuzia di pensare ogni cosa brutta ma non di dirla. Se le femmine sono femministe consapevoli di esserlo in gruppi privilegiati ma non oceanici, i maschi sono sempre stati maschilisti per natura. Sono state per secoli, per legge, religione, natura, cultura, storia, denaro, potere e madri adoranti (Natalia Aspesi).

Caro maschio ci fai ridere

di Natalia Aspesi (la Repubblica, 15.03.2016)

E se avesse ragione il vecchio scaltro Bertolaso? Se ad ogni donna incinta, lavoratrice, amministratore delegato, mendicante, diva, escort, quindi anche sindaco, venisse consigliato di lasciare il lavoro, con un bel salario dallo Stato ovviamente?

ESSERE solo una premamma e una mamma, non solo per qualche mese ma almeno per qualche anno, per poi trovare il suo lavoro e il suo stipendio? Consentito anche alla stessa massaia, che smettendo di cucinare, rifacendo i letti, compiendo il suo dovere di sposa, sostituita da una casalinga di stato in tutti i doveri, poteva dedicarsi solo a questa professione solo alla sua donna consentita, di seguirla a tempo pieno .

In questo caso essere donna e madre potrebbe essere di per sé una libera professione al servizio della Patria e anche la Meloni incinta potrebbe utilizzarla senza dare fastidio a Bertolaso ​​e compagni, evitando di vomitare durante la campagna elettorale e di perdere le acque durante una manifestazione di piazza. Ma soprattutto togliendo all'aspirante sindaco almeno un motivo di stupide dichiarazioni, che purtroppo lo aiuterebbe a vincere le elezioni, con evidenti danni alla città già gravemente danneggiata. Un sindaco che allatta durante un'accesa battaglia in giunta renderebbe invece Meloni sempre vincente, perché anche i suoi antagonisti maschi più duri arrossirebbero guardando altrove: ma anche in questo caso sarebbe di nuovo Roma a perdere, e non per colpa di mamma Meloni, ma per semplicemente di Meloni.

Femminista da almeno cinquant'anni, non vorrei essere giudicata macho se oso dichiarare che la signora Patrizia Bedori ha fatto benissimo a ritirare la sua candidatura, che non avrebbe nemmeno dovuto proporre, per tanti motivi. Perché se uno può diventare sindaco perché 74 persone l'hanno votata online, non sembra un furore popolare, anche nel suo noioso movimento, che è già molto vecchio stile. Perché ha smascherato definitivamente la finta giovinezza democratica delle sue compagne elettroniche che l'hanno insultata perché "casalinga e disoccupata" come milioni di altre donne e ora tanti disoccupati e casalinghe in quanto sole. Che l'ha definita "brutta, grassa e obesa", come molti uomini rispettabili, quindi merita di essere "presa a calci nel culo". Basti pensare che, come la maggior parte dei suoi compagni, non sembrava preparata per il difficilissimo ruolo di sindaco di Milano, soprattutto dopo Pisapia.

Del resto, anche in passato i ragazzi Cinque Stelle avevano mostrato la loro paura delle donne, come Massimo De Rosa che ha onorato i colleghi del Pd con un complimento forse invidioso: "Sei qui solo perché sei bravo a fare pompini!". Quelle persone insaziabili non le vogliono brutte, ma nemmeno belle. Nicola Morra, senatore M5S: "Il ministro Boschi sarà ricordato più per le forme che per le riforme" (per saperne di più c'è il libro Zitto e vai in cucina di Filippo Maria Battaglia).

Resta un problema più ampio del miserabile maschilismo dei politici, che dovrebbero avere l'astuzia di pensare ogni cosa brutta ma non di dirla. Se le femmine sono femministe consapevoli di esserlo in gruppi privilegiati ma non oceanici, i maschi sono sempre stati maschilisti per natura. Sono state per secoli, per legge, religione, natura, cultura, storia, denaro, potere e madri adoranti.

Per anni hanno cercato di correggersi, da quando negli anni '70 hanno persino iniziato a prendere coscienza di sé come le ragazze. Ma non arrivano alla fine. Ogni tanto il maschio militante salta fuori, lancia una ferita che è sempre fisica e sessuale, oppure, se è molto nervoso, taglia la gola alla donna che comunque non finge di adorarlo e di essere sicura della sua superiorità. Cosa fare? Niente, stai zitto, ridi di ogni bertolasata, che più o meno ci sarà sempre, e prendi tutto quello che ci meritiamo non tanto come donne ma come esseri umani.

Anche se siamo donne abbiamo il voto

Tra i timori bipartisan e la sfiducia dei partiti, le ansie e i tremori degli interessati, il 10 marzo 1946 gli italiani si recarono per la prima volta alle urne. Ed erano più numerosi dei maschi

di Mirella Serri (La Stampa, 02.03.2016)

Meglio evitare il rossetto quando si va a votare. La carta deve essere incollata. Una macchia vermiglio può essere fatale. Gli avvertimenti su come dovrebbero comportarsi le donne fluttuano sulla stampa nazionale. Al di là della ricchezza o della cultura, signore e signorine, operai e intellettuali sono presi dall'ansia: la comunista Clelia confessa "mi tremavano le mani, le gambe, le braccia", mentre la scrittrice Maria Bellonci ricorda di aver "desiderato di fuggire quando mi sono trovata in quella vecchia capanna di legno con la matita e il biglietto in mano», e la scrittrice Anna Banti era ossessionata dal terrore di rendere nullo quel passo.

Non c'è da stupirsi: gli italiani, in cinque turni dal 10 marzo al 7 aprile 1946, si trovarono di fronte al battesimo del voto, cioè andarono a deporre per la prima volta la scheda nell'urna. Si trattava di elezioni amministrative. Simili preoccupazioni si ripresenteranno il 2 giugno dello stesso anno per la designazione dei membri dell'Assemblea Costituente e la scelta fondamentale tra Monarchia e Repubblica.

Nonostante i diffusi timori femminili, però, non sono stati i nuovi elettori a imbattersi sulla scena politica, ma proprio i rappresentanti dei partiti di massa a contendersi le loro preferenze, Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. I due dirigenti del PCI e della Dc, nel decreto n. 23 febbraio 1945, estendeva il suffragio agli italiani che avessero compiuto 21 anni. Sono state escluse le prostitute iscritte, quelle che lavoravano fuori dalle case chiuse dove era consentito loro di esercitare la professione. Tuttavia, pur riconoscendo quell'ambito diritto alle donne, hanno dimenticato la loro eleggibilità. Giusto. Le donne potevano essere solo elettriche ma non elette. E questa svista sarà corretta solo nella primavera del 1946.

Oggi che celebriamo i 70 anni da quello storico evento che ci ha resi cittadini a pieno titolo, è quindi legittimo porsi la domanda: si è trattato di una distrazione voluta e voluta o è stata una sorta di lapsus freudiano su un voto femminile che ha preoccupato e spaventato il forze politiche che lo hanno anche sostenuto? Ora, dopo anni di studi e dibattiti (da Anna Rossi Doria, autrice di una delle prime ricerche, al volume di Giulia Galeotti), si può sostenere la seconda ipotesi: il voto è stato concesso alle donne quasi in silenzio, alla fine del uno stanco Consiglio dei ministri che aveva esaminato a lungo i collocamenti in pensione dei funzionari epurati. Non c'è stata né discussione né eco delle animate battaglie sostenute prima e dopo la Grande Guerra e durate fino al momento in cui, nel 1925, tra bevute, scherzi e rumori inquietanti (come registrato nei verbali di quella storica seduta parlamentare) , Mussolini eliminò definitivamente ogni speranza di suffragio esteso al gentil sesso ("le donne bastano per un'ora di divertimento ma non sono adatte a un lavoro tranquillo ed equilibrato").

A due settimane dal decreto, il liberale Manlio Lupinacci, con una sorta di voce da sen fuggito, dava sostanza alle paure maschili: «Ho una certa istintiva, tradizionale sfiducia verso la partecipazione delle donne alla vita politica. Questa è l'unica vera base di ogni opposizione di noi uomini». Ma poi dichiarò di voler seguire la via della ragione. Che però appariva piena di trappole. "Le donne penzolano verso il passato reazionario", si lamentò Togliatti, e fu d'accordo anche la leader comunista Teresa Noce. Il Best temeva di disturbare l'elettorato anche con la commistione dei sessi: prediligeva liste divise tra uomini e donne nelle circoscrizioni. Per fortuna non ne è venuto fuori nulla.

Visioni simili hanno agitato la Democrazia Cristiana, che ha presentato un vantaggio della destra conservatrice determinato dal card femminile. Inoltre, il voto alle donne veniva spesso associato allo spauracchio del divorzio, tanto che il comunista Concept Marchesi sosteneva che era troppo presto per parlarne, visto il basso reddito delle famiglie. Nemmeno i partigiani si sono accesi di entusiasmo per l'ambito ballottaggio: votare per le donne "è una cosa normale, naturale", ha sottolineato Ada Gobetti e anche la piemontese Marisa Ombra ha trovato dentro di sé "una debole reazione", come qualcosa di dovuto. Tutti allora prevedevano l'assenteismo femminile. Era opinione comune che le casalinghe italiane, nelle domeniche stabilite dalla legge, fossero più desiderose di indugiare in cucina che di andare ai seggi.

Questi timori condivisi da azionisti, esponenti dello Scudo Crociato, della Falce e Martello e anche dei seguaci di Benedetto Croce si sono realizzati? No, la partecipazione femminile ha dato uno schiaffo alla politica ed è stata molto alta, anzi molto più alta che in altri Paesi europei: gli elettori sono stati l'89 per cento degli aventi diritto, ovvero il 52,2 per cento dell'elettorato.

L'astensione femminile è stata inferiore a quella maschile, sempre il contrario di quanto accaduto in altri paesi del Vecchio Continente. Le donne poi si sono recate alle urne più nei piccoli centri che nelle grandi città, in numero maggiore degli elettori maschi del Sud, e hanno assicurato la loro presenza più alle elezioni politiche del 2 giugno che a quelle amministrative. Eliminando il pregiudizio di avere a cuore gli interessi della casa e della spesa piuttosto che quelli del Paese.

E le neo elette? I candidati erano pochi, poiché i partiti faticavano ad accettare la presenza delle donne - la Dc, ad esempio, aveva inserito un solo nome in ogni circoscrizione - e inoltre erano state preparate molte liste di elezioni amministrative prima che fosse riconosciuta l'eleggibilità. di donne. La truppa rosa fu però più consistente del previsto e nella primavera del 1946 oltre duemila donne entrarono nei consigli comunali, mentre i rappresentanti del gentil sesso all'Assemblea costituente erano 21 su 558 iscritti, pari al 3,7 per cento del deputati (9 per la DC, 9 per il PCI, 2 per il PSIUP e 1 per l'uomo comune). Paradossalmente, la presenza delle donne è diminuita nelle successive elezioni (tendenza riscontrata, ad esempio, anche nei consigli comunali piemontesi, dove i 64 eletti nel 1946 sono scesi a 47 cinque anni dopo).

Questi incredibili e inaspettati successi hanno aperto la strada a una nuova considerazione femminile? Grande festa per Teresa Mattei, designata all'Assemblea Costituente. I suoi meriti? "Era la più giovane, venticinque anni, aveva molti bei riccioli castani e due occhi luminosi". Altro che ingresso come cittadini nella sfera pubblica! Il voto sembrerà un regalo immeritato per anni. Ma gli italiani imparano dalla propria storia. Il 10 marzo 1946 sanano l'originario lapsus andando in massa ad eleggere i propri beniamini e iniziano un lungo e, va detto, per molti versi fortunato cammino: nelle istituzioni, nella mentalità, nei costumi, nel mondo del lavoro, sempre per mettere una patch a quella significativa distrazione.

DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L'importanza della lezione "MATRIMONIO PROMESSO" oggi.

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KANT E SAN PAOLO. COME LA BUONA SENTENZA ("SECUNDA PETRI") È (ED ERA) RIDOTTA ALLA MINORANZA DALLA SENTENZA FALSA E BUGIARDA ("SECUNDA PAULI").

di Simonetta Fiori (La Repubblica, 19 novembre 2015)

Nel codice la parola non compare mai, segno di una forse reciproca insofferenza, di un'incompatibilità che è più forte in Italia che altrove. Al conflitto permanente tra diritto e amore dedica belle pagine Stefano Rodotà, giurista da sempre attento al tumultuoso rapporto tra l'irregolarità e l'imprevedibilità della vita e l'astrazione formale della norma giuridica (Diritto d'amore, Laterza). Va da sé da che parte sta Rodotà. Ed è superfluo anticipare che in questa storia i protagonisti non sono solo legge e sentimenti ma anche politica. Con alcune vittime - una volta donne, ora omosessuali - a guidare il cambiamento.

Professor Rodotà, legge e amore sono incompatibili?

«Ancora una volta mi aiuta Montaigne, che definisce la vita come un movimento volubile e multiforme. La legge è esattamente l'opposto, parla di regolarità e uniformità, è intollerante alle sorprese della vita. Poi, quando si entra nel terreno dell'amore, la soggettività esplode. E la legge è decisamente scomoda"

«Le relazioni affettive possono essere qualcosa di esplosivo nell'organizzazione sociale. E quindi il diritto si propone come strumento di disciplina dei rapporti sentimentali che non lascia spazio all'amore. Basta ripercorrere due secoli di storia: nella tradizione occidentale la legge per un da tempo ha sancito l'irrilevanza dell'amore. E infatti ha sacrificato le donne, codificando una disuguaglianza”

«Il rapporto di coppia è stato riconosciuto in funzione di qualcosa che non ha nulla a che vedere con i sentimenti: la stabilità sociale, la procreazione, la continuazione della specie. Le logiche patrimoniali hanno prevalso sulle logiche affettive. E se san Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava il mutuo ed eguale possesso tra marito e moglie, abbiamo stabilito il modello gerarchico maschilista che riduce il corpo della donna alla proprietà del marito”

Questo modello gerarchico è persistito in Italia fino alla metà degli anni '70. Anomalia anche italiana?

“No, storicamente non direi. Il modello familiare della modernità occidentale - dalla fine del Settecento in poi - è stato terribilmente gerarchico. Dopo l'unificazione abbiamo assorbito il codice francese firmato da Napoleone, che sanciva la più cieca obbedienza della moglie al marito. Sembra che Napoleone durante la campagna d'Egitto sia rimasto colpito dal modo in cui la legge islamica disciplinava il rapporto tra marito e moglie”

Da noi la storia successiva è stata condizionata dalla Chiesa cattolica. Ma la politica ha anche contribuito a intorpidire i sentimenti.

«Sì, il matrimonio ha mantenuto la sua struttura gerarchica anche grazie all'influenza della Chiesa. Quanto alla politica, per un non breve periodo storico si è mossa in una logica di disciplina delle pulsioni, nell'incontro tra rigorismo cattolico e socialcomunista”

Colpisce che anche i nostri padri costituenti - Calamandrei, Nitti, Orlando - si siano opposti al principio di uguaglianza tra marito e moglie perché in contrasto con il codice civile.

“Incredibile. Nelle loro teste, il modello matrimoniale consegnato alle regole giuridiche è un fatto irriformabile della realtà. Non si rendevano conto che le regole del gioco stavano cambiando. E che la carta costituzionale era al di sopra del codice civile”

Una rigidità che ritrovi in ​​una recente sentenza della Corte Costituzionale, che dice no ai matrimoni gay in nome del codice civile.

“Sì, anche loro rispettano il codice che parla solo di matrimoni tra uomini e donne. Mi ha colpito il riferimento della Corte a una tradizione millenaria del matrimonio: come se fosse un dato naturale non soggetto a mutamenti sociali e antropologici. Invece è una costruzione storica che sta cambiando in Europa e in Italia. Ma l'Italia è l'unico Paese che non ne vuole prendere atto, nonostante abbia firmato la Carta dei diritti dell'Unione Europea"

Una carta che nell'accedere al matrimonio annulla il riferimento alla diversità di sesso nella coppia.

«E infatti è stato proprio quell'articolo, l'articolo nove, a essere oggetto di forti pressioni da parte della Chiesa. Le pressioni sono passate sotto silenzio, ma posso testimoniare, visto che ero seduto al tavolo del convegno. Aggiungo che il riferimento alla tradizione millenaria della famiglia, pronunciato dalla nostra Corte Costituzionale, non compare in nessun'altra giurisprudenza»

Oggi si fa fatica ad approvare anche le unioni civili. Perché succede questo?

“Si tratta di un conflitto fortemente ideologico, favorito dallo sfortunato radicamento dei cosiddetti “valori non negoziabili” e delle “questioni eticamente delicate”.

Una barriera che non esisteva ai tempi delle battaglie sul divorzio e sull'aborto.

«E infatti non c'era la stessa intolleranza. Nonostante l'ostinata opposizione, la Dc ha riconosciuto che si erano verificate innovazioni sociali non più trascurabili”

Il disgelo era iniziato negli anni '60, quando l'amore cessò di essere bandito. Solo nel 1968 la Corte Costituzionale annullò il reato di adulterio per le donne. E nel 1975 arriva il nuovo diritto di famiglia, che mette fine al modello gerarchico.

«Sì, le logiche proprietarie vengono sostituite da quelle affettive. Eppure anche in quell'occasione il legislatore teneva la mano davanti alla parola amore. Si parla di fedeltà, collaborazione, ma non di amore"

Ma si può mettere la parola amore in una legge?

«Qualcuno sostiene: più la legge ne è tenuta lontana, meno la si nomina, meglio è. Ma bisogna chiedersi: la legge non nomina l'amore perché lo rispetta pienamente o perché lo vuole subordinare ad altri bisogni come come stabilità sociale? Per un lungo periodo della storia italiana è stato così”

C'è il diritto all'amore per le coppie omosessuali, che devono avere accesso al matrimonio. Ma c'è anche il diritto all'amore dei figli, che devono poter essere amati da un padre e da una madre. Come si conciliano questi due diritti?

“Non ci sono prove empiriche che i bambini cresciuti in famiglie omosessuali mostrino ritardi nello sviluppo della personalità e dell'affettività. Quindi, chiedo, i figli di genitori single? "

I genitori single - forse più di chiunque altro - sanno che i figli hanno bisogno di un padre e di una madre, di una figura maschile e una femminile. E anche la psichiatria mette in dubbio l'adozione di coppie gay.

“Lei solleva una questione che, però, non può essere risolta con l'uso autoritario della legge. Prima riconosceremo pari dignità a tutte le relazioni affettive e prima potremo costruire modelli culturali adeguati a questa nuova situazione. Finché manteniamo conflitto ed esclusione, tutto questo diventa più difficile"

Tu dici: il matrimonio egualitario porta con sé la legittimità delle adozioni.

«Certo. Se, una volta raggiunto questo risultato, ci sarà voglia di discutere, sarà possibile farlo senza ipoteche ideologiche. È una storia che non finisce mai. Come non si finisce mai di rispondere alla richiesta di Auden: la verità, per favore, sull'amore"

DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L'importanza della lezione "MATRIMONIO PROMESSO" oggi.

RISPETTO E DIGNITÀ DELLE DONNE E DELLE 21 "MADRI DELLA REPUBBLICA": LA VIA PRINCIPALE PER UN'ALTRA POLITICA.

#ConLeDonneXLeDonne, una mostra contro la violenza di genere

A Roma al Chiostro del Bramante mostra dei migliori scatti condivisi online

#ConLeDonneXLeDonne è il titolo della mostra fotografica che raccoglie i migliori scatti condivisi online contro la violenza di genere, in programma al Chiostro del Bramante, a Roma. Si apre stasera solo per le autorità, da domani 21 novembre sarà aperto al pubblico.

La mostra resterà aperta fino al 29 novembre.

La mostra raccoglie i migliori contributi condivisi da tutte coloro che hanno aderito alla campagna a sostegno dell'associazione nazionale DiRe "Donne in Rete contro la violenza". Con una donazione all'associazione, i visitatori potranno scegliere di avere a casa una delle stampe simbolo di questa campagna e riceverla al termine della mostra.

La bellezza di essere sensibili a ogni forma di violenza: una provocazione lanciata da un'azienda che produce creme viso e corpo a base di acque termali e DiRe, che nasce dall'esigenza di provocare un vero e proprio slancio culturale sul tema ancora troppo attuale e diffuso della violenza contro le donne con l'obiettivo di innescare un vero cambiamento sociale per contrastare la cultura della violenza di genere. Focus della campagna, il massiccio coinvolgimento della rete e dei social, su cui in questo mese sono stati pubblicati centinaia di contributi da tutta Italia.

L'ultima tappa della campagna è il twitterstorm in programma il 25 novembre alle 10 in cui tutti gli utenti saranno invitati a condividere un messaggio personale contro la cultura della violenza sulle donne con l'hashtag #ConLeDonneXLeDonne.

La sfida femminista al centro della politica.

“Sorores carissimae et admirandae” La presenza delle donne al Concilio Vaticano II

in "Settimana" n. 32 del 9 settembre 2012

Da qualche settimana, per i tipi di Carocci Editore (luglio 2012), è arrivato nelle librerie un piacevole e istruttivo studio sulla presenza delle donne al Concilio Ecumenico Vaticano II. Ne è autrice Adriana Valerio, teologa e storica, tra le fondatrici del “Coordinamento Theologhe Italiane”, docente di Storia del Cristianesimo e della Chiesa all'Università “Federico II” di Napoli, studiosa di problematiche relative alla presenza delle donne nel cristianesimo.

Come scrive nella “presentazione” Marinella Perroni, Presidente del Coordinamento dei Teologi Italiani, il libro, intitolato “Madri del Concilio – Ventitré donne al Vaticano II”, è stato scritto per “far emergere finalmente i volti e le vite di ventitré donne che, per la prima volta nella storia, hanno preso parte ad alcune sessioni di un Concilio e, pur rispettando l'ordine del silenzio nelle assemblee generali, hanno saputo trovare le occasioni giuste per pronunciare parole efficaci”.

Il cardinale Suenens aveva auspicato un aumento del numero degli “ascoltatori laici” al Concilio e che questo aumento includesse anche le donne, il 22 ottobre 1963 nel corso del suo vigoroso discorso sui carismi nella Chiesa. Paolo VI, accettando l'invito, aveva deciso di ammettere alle sessioni conciliari alcune rappresentanti di ordini religiosi femminili e alcuni qualificati rappresentanti del laicato cattolico: complessivamente dal settembre 1964 al luglio 1965 furono chiamati ventitré uditori (dieci religiose e tredici laici donne). Delle tredici laiche, nove erano nubili, tre vedove e una sposata: tutte (tranne una, Gladys Parentelli) vestite rigorosamente di nero con il velo sul capo.

È sintomatico che, quando il 14 settembre 1964, per l'inaugurazione della terza sessione del Concilio, il papa salutò gli ascoltatori ("le nostre amate figlie in Cristo... che per la prima volta ebbero il diritto di partecipare alla alcune riunioni del Consiglio”), in realtà di uditori in sala non c'era nemmeno l'ombra. Motivo? Non erano ancora stati designati: le prime nomine ufficiali, infatti, sono avvenute dopo il 21 settembre. Perché - si chiede l'autore - questo clamoroso lasso di tempo? “Difficile dirlo se non assumendo la resistenza di alcune personalità della Curia a far partecipare le donne” a un'assemblea composta da soli maschi. Fatto sta che la prima donna ad entrare in aula il 25 settembre 1964 fu una laica francese, Marie-Louise Monnet, fondatrice del MIASMI ("Mouvement International d'Apostolat des Milieux Sociaux Indépendants"), sorella di Jean, uno dei fondatori padri dell'Unione Europea.

Sebbene Paolo VI, l'8 settembre 1964 a Castel Gandolfo, avesse parlato di rappresentanti femminili al Concilio certamente "significative" ma "quasi simboliche", senza diritto di parola né di voto, ben presto queste ventitré straordinarie "madri del Concilio", salutato con enfasi da alcuni "padri conciliari" con le parole "carissimae sorores", "sorores admirandae" o "pulcherrimae auditrices", ha trovato modo di partecipare attivamente e propositivamente ai gruppi di lavoro, presentando memorie scritte e contribuendo con la loro cultura e sensibilità alla redazione di documenti, in particolare quelli riguardanti temi come la vita religiosa, la famiglia e la presenza dei laici (uomini e donne) nella Chiesa e nella società o, più semplicemente e prosaicamente, invitando influenti vescovi a pranzo quali comunicare i loro "desideri". In ciò, incoraggiato dalla Segreteria di Stato che, nel settembre 1964, chiariva che la loro presenza non era da intendersi in senso passivo, invitando a dare un contributo di studio ed esperienza alle commissioni incaricate di accogliere e modificare gli schemi previsti per le sessioni conciliari.

La più viva tra le ascoltatrici laiche è stata senza dubbio la spagnola Pilar Bellosillo, presidente dell'Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche (UMOFC). Per due volte, in nome del divieto paolino di 1 Cor. 14.34 “le donne tacciono in assemblea”, citato dal segretario del Consiglio, Pericle Felice (apparentemente, in difficoltà nel rivolgersi agli uditori, anche solo per salutarli), le è stato impedito di parlare in assemblea generale, nonostante fosse stata portavoce espressamente nominato per il suo "gruppo di studio". Il secondo rifiuto le fu opposto verso la fine del Concilio: nell'occasione fu semplicemente incaricata di esprimere la sua gratitudine ai Padri conciliari e quella dei suoi colleghi per il privilegio loro concesso di partecipare al Concilio. Ancora una volta il rifiuto è stato motivato dall'anacronistico e ridicolo "mulieres in ecclesiis taceant". Al grande teologo domenicano ed esperto conciliare Yves Congar che, nell'ambito del gruppo sullo schema dell'apostolato laicale, ha voluto inserire nel documento un'elegante espressione con cui le donne venivano paragonate alla delicatezza dei fiori e ai raggi del sun, la (fisicamente) piccola ma energica auditor australiana Rosemary Goldie ha detto, ammiccando rispettosamente alle orecchie: “Padre, lascia fuori i fiori. Quello che le donne vogliono dalla Chiesa è essere riconosciute come persone pienamente umane”.

La messicana Luz Maria Longoria, presente al Concilio con il marito Josè Alvarez Icaza, si è interrogata su ciò che i manuali di teologia, in uso prima del Concilio, definivano “fini primari” e “secondari” del matrimonio, dove la procreazione era primaria. il rimedio per la concupiscenza dell'atto sessuale è secondario. Il copresidente del MFC ("Movimiento Familiar Cristiano"), molto attivo all'interno del gruppo che doveva esaminare lo "schema XIII", chiedeva di liberare l'atto sessuale dal senso di colpa e di restituirgli la sua motivazione intrinseca per d'amore. A un padre conciliare ha detto: “Noi madri di famiglia siamo molto turbate dal fatto che i figli siano frutto della concupiscenza. Personalmente ho avuto tanti figli senza alcuna lussuria: sono il frutto dell'amore”.

Verso la fine del Concilio, il 23 novembre 1965, i revisori laici pubblicarono una dichiarazione comune per rendere conto del lavoro svolto. Consapevoli di aver assistito a una tappa storica dell'apertura della Chiesa alla sua componente laicale, hanno sottolineato l'importanza vitale di alcuni documenti ai quali avevano dato un contributo significativo con discussioni e scambi di idee. In particolare hanno fatto riferimento al cap. IV della “Lumen gentium” dedicata ai “laici”, alle parti della “Gentium et spes” concernenti la partecipazione dei credenti alla costruzione della città umana e al decreto sull'apostolato dei laici “Apostolicam actuositatem” .

Nella dichiarazione congiunta, uditori e uditori hanno anche richiamato l'attenzione che, grazie a loro, il Consiglio ha affrontato temi come la costruzione della pace, il dramma della povertà nel mondo, l'esistenza di disuguaglianze e ingiustizie che richiedono una più equa distribuzione di ricchezza. , la difesa della libertà di coscienza, dei valori del matrimonio e della famiglia, dell'unità di tutti i cristiani, di tutti i credenti e di tutta l'umanità. Il 3 dicembre 1965 vollero redigere un comunicato stampa in cui riaffermavano il loro ruolo attivo, apprezzato dai padri conciliari che spesso si erano rivolti a loro per consigli e talvolta facevano eco alle loro opinioni in sala consiliare.

Consapevole del grande impegno profuso nell'adempimento del compito loro assegnato, il 7 dicembre 1965, Paolo VI, ricevendo uditori e uditori, manifestava la sua soddisfazione "per la preziosa collaborazione" assicurata da entrambi, in modo "discreto ed efficace". , “Al lavoro dei padri e delle commissioni”.

Vanno doverosamente ricordati nomi e cognomi delle ventitré “madri del Concilio”, ormai quasi tutte rientrate nella casa del Padre. Ascoltatori religiosi: Mary Luke Tobin (USA); Marie de la Croix Khouzam (Egitto); Marie Henriette Ghanem (Libano); Sabine del Valon (Francia); Juliana Thomas (Germania); Suzanne Guillemin (Francia); Cristina Estrada (Spagna); Costantina Baldinucci (Italia); Claudia Feddish (USA), Jerome Maria Chimy (Canada). Uditori laici: Pilar Bellosillo (Spagna); Rosemary Goldie (Australia); Marie-Louise Monnet (Francia); Anne Marie Roeloffzen (Olanda); Amalia Dematteis (Italia); Ida Marenchi-Marengo (Italia); Alda Miceli (Italia); Catherine McCarthy (Stati Uniti); Luz Maria Longoria (Messico); Margherita Moyano Llerena (Argentina); Gladys Parentelli (Uruguay); Gertrud Ehrle (Germania); Hedwig von Skoda (Cecoslovacchia).

Leggendo le loro biografie, ricostruite da Adriana Valerio con materiale inedito, emerge con sufficiente chiarezza un fatto: nonostante il decisivo riconoscimento, sul piano teorico, da parte del Concilio della dignità della donna e del ruolo insostituibile che può e deve svolgere, in virtù del battesimo, nella comunità ecclesiale come nella società civile, molto resta da fare per ridurre, sul piano pratico, il monopolio clericale e androcentrico sulla storia e sulla vita della Chiesa in nome della vera uguaglianza che esiste tra tutti i membri del Popolo di Dio. Andrea Lebra - andleb@libero.i

La giornalista e scrittrice Miriam Mafai è morta ieri a Roma dopo una lunga malattia. Il 2 febbraio aveva compiuto 86 anni.

di Angelo d'Orsi (il Fatto, 10.04.2012)

"Ragazza rossa": così i primi commenti, non appena la notizia della scomparsa di Miriam Mafai, un'ottantaseienne sassosa, ma capace di sorridere e, come sa chi l'ha conosciuta da vicino, anche ridere, a voce alta. Non sono tante le donne che hanno lasciato un segno importante nella storia d'Italia negli ultimi decenni, dalla Resistenza storica alla nuova resistenza contro il tiranno di Arcore: Mafai è stata una di quelle poche, che ha attraversato la storia italiana, imprimendo la sua impronta soprattutto nel giornalismo. La sua stagione forse più felice è stata quella della direzione del settimanale Noi Donne, dal 1965 al 1970: nel suo partito, il PCI, in cui il suo compagno, Gian Carlo Pajetta, esercitava ancora un ruolo eminente, il femminismo non era una merce comune, e merita l'indubbio merito di averla fatta circolare. Il sodalizio con Pajetta - nonché l'incontro e l'incrocio tra due grandi famiglie della sinistra storica italiana: da un lato gli eroici Gaspare e Giuliano Pajetta, e dall'altro la ancora viva e vegeta Simona Mafai, icona del lotta alla mafia in Sicilia, con alle spalle genitori come Mario Mafai e Antonietta Raphael - credo che, almeno visto da fuori, non avrebbe potuto essere più felice: due figure di "partito indipendente", vigorose, ironiche, a volte sarcastico, capace di rigetti improvvisi. Lui, Pajetta, rimase veramente, anche brontolando, "il ragazzo rosso" - come fu efficacemente chiamato la sua autobiografia -; lei, invece, sembrava voler gettare nel dimenticatoio il colore rosso, a partire dagli anni Settanta, passando da Paese Sera alla nascente Repubblica, quindi molto prima della svolta occhettiana della Bolognina nel 1989, che, nell'analisi di Mafai , in qualche modo confermava il suo giudizio ipercritico su tutta la storia del comunismo italiano, di cui era stata militante fin dai tempi gloriosi della lotta di Liberazione.

NON HA MAI AVUTO funzioni esecutive all'interno del Partito di Togliatti, Longo e Berlinguer, ma nemmeno più tardi tra PDS e PD, ma fu, in queste ultime formazioni, sempre anima critica. Qualche anno fa mi è capitato di partecipare ad un dibattito con lei e Rossana Rossanda, due grandi donne della sinistra italiana: provenendo da un comune passato, le ho viste molto lontane, nell'analisi del presente, e dei suoi possibili sviluppi .

Mi ha colpito la Mafai - donna di grande vigore intellettuale, con analisi forse troppo certe, al punto da velare quella certezza, alla comprensione dei fenomeni - proprio quella sua energia tesa a buttare via il bambino con l'acqua sporca, come se il comunismo italiano aveva tante responsabilità - per tragici errori o scelte sbagliate - da costringere tutti coloro che, come lei, l'avevano percorso, a tradurre la "colpa" in abiura.

Insomma, l'opposto di Rossana, che faceva anche autocritiche (a volte anche un po' di troppo), che cercava di distinguere, analizzare, tenendo alta la bandiera di un altro comunismo - o socialismo - possibile, Miriam, è stata dura a sua volta lontano da un'intera tradizione. Il "cupio dissolvi", però, in lei non ha mai raggiunto le forme grottesche di cui abbiamo visto tante testimonianze: da "non sono mai stato comunista" a "facciamo finta di essere comunisti", di tanti attuali dirigenti del Pd ...

E che dire della posizione di Mafai sulle guerre del dopo 89? Da sempre il paradigma della “guerra antifascista” usato per giustificare gli americani e le loro bombe, dal Kosovo all'Iraq. Mafai ha espresso queste posizioni nei suoi editoriali - di grande efficacia -, soprattutto per il quotidiano di Scalfari, ma anche in una vasta produzione saggistica, di piacevole lettura, ma nella quale, va detto, si trovano spesso analisi discutibili e giudizi perentori. , non supportato dai documenti. Inoltre, il testimone non è lo storico. Ed è stata, tuttavia, una grande, vivida testimone di tempi difficili. Quindi dobbiamo ricordarla e renderle omaggio.

Nuove genealogie per il Risorgimento

di Nadia Maria Filippini (il manifesto, 11 febbraio 2012)

Il ruolo attivo delle donne nella stagione risorgimentale è al centro di molti studi pubblicati in occasione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Ne emerge un quadro complesso, che, alla luce della differenza, ridisegna la rappresentazione della nostra storia nazionale. Quando Garibaldi arrivò a Napoli nel 1860, ad accoglierlo tra i primi, con uno scialle sulle spalle e un pugnale alla cintura, fu Marianna De Crescenzo, detta la Sangiovannara, patriota combattente, che durante l'insurrezione era stata a capo di uno squadrone di uomini armati. Nel suo esercito, però, aveva combattuto non solo Anita, ma anche Tonina Marinello Masanello, che dal Veneto si offrì volontaria con il marito (addobbo sul campo), come Colomba Antonietti in difesa della Repubblica Romana del '49, che scoprì che era una donna solo dopo la sua morte. . Eppure la nobildonna Felicita Bevilacqua avrebbe voluto essere tra i Mille, se il suo futuro marito, Giuseppe La Masa, non glielo avesse impedito, costringendola - come gli rimproverava nelle sue lettere - a "sacrificare" i suoi impulsi e le sue più profonde volontà.

Sono alcuni dei volti e dei fatti che vengono messi in luce dai vari libri dedicati alla donna e al Risorgimento, usciti in occasione delle celebrazioni del 150° anniversario: biografie completamente cancellate da una rappresentazione storica che aveva emarginato le donne, oscurandone la presenza, o rimodellando loro. gli aspetti divergenti, in un'operazione di vera e propria “plastica biografica” volta a riportare la partecipazione femminile entro i canoni dei modelli tradizionali, confermando precise gerarchie di genere anche nella costruzione dello Stato nazionale. Al centro della scena risorgimentale rimasero solo i "fratelli", con le spade "affilate nell'ombra", uniti dal giuramento di libertà o di morte, lanciati in battaglia per offrire i loro corpi in sacrificio alla madrepatria; mentre le "sorelle" erano intente a pregare ai piedi dell'altare o chiuse nelle loro case a cucire le divise e le bandiere, come le raffigurano i pittori macchiaioli.

Una rappresentazione cementata da un'enfasi retorica (analizzata qualche anno fa da Alberto M. Banti) che ha pervaso la nostra cultura ottocentesca, dalla letteratura alle arti, dall'opera al teatro), arrivando pressoché intatta fino agli anni Sessanta, grazie a una corrente storiografica ben radicata in Italia, che privilegiava gli aspetti politico-militari-diplomatici (caratterizzati proprio da una presenza monosessuale maschile), rispetto a quelli sociali e culturali.

Nulla di nuovo è certo nella storia delle donne: ciò che sorprende è, semmai, la pervasività di un processo di emarginazione che riflette le gerarchie e l'ordine simbolico su cui si fonda il patriarcato. Eppure questo passaggio storico non può sfuggire alla particolare rilevanza simbolica e alle riflessioni in termini di cittadinanza. Perché l'emarginazione delle donne dall'atto costitutivo dello Stato nazionale diventa presupposto e pretesto della loro marginalità dalla sfera politica, come si è visto subito dopo l'Unità, con l'esclusione delle donne dalla cittadinanza politica, intrecciata con una netta subordinazione nella sfera familiare, sancita dai codici, funzionale a questo stesso ordine, poiché lo Stato è concepito proprio come aggregazione di famiglie piuttosto che di individui.

La riscrittura radicale di questo importante capitolo della storia in una prospettiva di genere non è iniziata in questi giorni - va precisato; è iniziata nel contesto storico e filosofico con quella "critica femminista della storia" avviata dal movimento delle donne negli anni Settanta, volta non ad aggiungere alcuni capitoli mancanti alla storia generale, ma a ridisegnare completamente la rappresentazione storica alla luce della differenza. Vanta una tradizione di oltre vent'anni di studio e ricerca.

Tuttavia, uno dei meriti di questa ricorrenza è quello di aver accelerato alcuni percorsi, di averlo valorizzato e diffuso con la promozione di eventi, rappresentazioni teatrali o mostre storico-documentarie; di aver animato un dibattito articolato in centinaia di seminari e convegni, organizzati un po' ovunque sul territorio nazionale, dentro e fuori l'Ateneo; per aver fatto fiorire opere destinate ad un pubblico più vasto (Donne del Risorgimento e due volumi con lo stesso titolo, Suore d'Italia). Tutto questo nonostante le scarse risorse e lo squilibrio nello stanziamento dei fondi per il 150° anniversario, che ancora una volta ha penalizzato le associazioni femminili.

Il quadro che ne emerge ridisegna radicalmente la rappresentazione tradizionale, anche se la tendenza a fare una storia aggiuntiva, scandita da medaglioni, è ancora lunga a morire, anche al di là delle intenzioni, come mostra il sito ufficiale del 150° anniversario. La ricerca storica, oltre a correggere errori biografici e illuminare presenze emarginate (come quella di Cristina di Belgiojoso, la Prima Donna d'Italia), ha piuttosto messo in discussione le modalità collettive di partecipazione delle donne al Risorgimento, i processi attuati in termini di soggettività, sulle aspettative di genere intrecciate con la creazione dello Stato nazionale, sulle varietà e differenze all'interno del mondo femminile. Tutto questo partendo dal presupposto di un Risorgimento inteso anzitutto come percorso di rinnovamento civile e culturale, da inquadrare nel Romanticismo europeo, come processo di formazione dell'identità nazionale, delle lingue, dei culti e dei simboli (come sottolineano Banti e Ginsborg). E ancora come azione del popolo, non solo di ministri o generali, con particolare attenzione all'“altro risorgimento”: quello democratico-insurrezionale.

È in questa prospettiva che emerge con chiarezza e acquista un'importanza cruciale la presenza delle donne, perché questi sono stati i campi principali della loro azione: dall'educazione alla diffusione di sentimenti ed emozioni (tanto importante in questa, come in altre rivoluzioni); dalla salvaguardia delle memorie al culto della patria, dalla testimonianza alla costruzione di reti associative, i patrioti hanno profuso un'azione capillare e incisiva, quanto sommersa, che ha mosso l'immobilità, per disegnare una diversa prospettiva civile e politica, per tessere l'unità partendo dalla quotidianità, per costruire l'alfabeto della comunità nazionale.

Basti pensare al valore politico (piuttosto che letterario) di tanta produzione poetica femminile, all'uso sociale di questa poesia patriottica, all'organizzazione di circoli femminili (come la poetessa Sebezie di Napoli), all'instancabile attività e successo di improvvisatrici come Giannina Milli, ricostruita nel libro di Maria Teresa Mori (Figlie d'Italia). Basta leggere le pagine del diario, gli appelli, i proclami, gli articoli di giornale, le lettere pubblicate nelle recenti raccolte di documenti, per vedere illuminata questa rivoluzione silenziosa che ha attraversato famiglie, genealogie, reti di quartiere (come aveva ben evidenziato nell'Ottocento la scrittrice Luigia Codemo, nel romanzo La rivoluzione in casa).

Eppure sarebbe sbagliato e riduttivo limitare la partecipazione delle donne al Risorgimento al solo livello culturale, riproponendo antichi stereotipi in veste aggiornata. Anche le donne ebbero una presenza attiva nella congiura e nell'attività insurrezionale: "giardiniere" prima e poi affiliate alla Giovane Italia, furono l'anima delle insurrezioni, mobilitate insieme agli uomini, per costruire barricate, per fare da cuoca, confezionare cartucce, allestire infermerie e ospedali da campo appena oltre le linee di battaglia, promuovere raccolte patriottiche.

L'importante ricerca sulle fonti femminili condotta negli archivi milanesi, anche sui processi politici (L'archivio delle donne 1814-1859, a cura di Maria Canella e Paola Zotti), ha portato alla luce centinaia di nomi di interrogatori per attività cospirativa, a dimostrazione di quanto fertile e ancora in parte inesplorato è il campo della ricerca archivistica. E quanto sia stata significativa la presenza delle donne nelle repubbliche è chiaramente mostrato, ad esempio, dalla mostra organizzata a Venezia dalla Giunta Regionale del Veneto, sotto la direzione di Mario Isnenghi (ora nel catalogo La Difference repubblicana. Volti e luoghi di il '48-'49 a Venezia e nel Veneto).

Ma per focalizzare appieno questa presenza, lo sguardo e le motivazioni che l'hanno accompagnata, è necessario partire dai soggetti stessi: dai loro sguardi e dalle loro parole. Non a caso quattro dei volumi pubblicati si presentano come raccolte di testimonianze e voci dei protagonisti (documenti e opere letterarie, corredate da ritratti e fonti iconografiche): quello curato da Laura Guidi per il sud (Il Risorgimento invisibile), da me e da Liviana Gazzetta per il Veneto (L'altra metà del Risorgimento), di Marina D'Amelia (O dolce patria), di Alberto M. Banti (In nome dell'Italia), dove le voci femminili si intrecciano con quelle maschili e quelle di personaggi famosi ad altri sconosciuti.

Queste raccolte di fonti, oltre a mettere in luce un'acuta capacità di giudizio politico, consentono anche di analizzare più adeguatamente due aspetti che sono al centro della recente riflessione storica: le aspettative di genere legate alla costruzione dello stato nazionale e le differenze interne mondo femminile , troppo spesso ritenuto omogeneo e monotono (altro stereotipo di lunga durata!).

Che la partecipazione al Risorgimento sia stata per molti liberali l'innesco di nuove forme di identità e di consapevolezza dei diritti, è un dato da tempo accertato e confermato dalle ricerche, ma le differenze anche tra i patrioti sono molto più profonde di quanto ipotizzato. Se per tutti ad incarnare il nuovo modello femminile è la figura della madre-cittadina (modello alla cui costruzione esse stesse contribuiscono attivamente), le sue declinazioni politiche si diffondono in diverse direzioni: per molti l'importanza civile e morale di questa figura resta limitata. alla sfera familiare e alla funzione educativa, nonostante l'importanza che questa acquista nel nuovo stato liberale; per altri (pochi) questa figura diventa una leva per rivendicare diritti civili e politici, in una prospettiva che intreccia autorità morale e uguaglianza giuridica, differenza e uguaglianza.

Si tratta di prospettive divergenti, su cui incidono molteplici fattori: appartenenze politiche, genealogie familiari, ma anche eventi ed esperienze particolari, contesti e luoghi. La "differenza repubblicana" qui emerge con forza, non solo come orientamento di pensiero, ma come spinta a una mobilitazione popolare che porti sulla scena pubblica donne di classi sociali diverse, a sperimentare forme di azione e partecipazione e anche di cariche pubbliche ( come accade per l'assistenza ai feriti a Venezia, con Elisabetta Michiel Giustinian e Teresa Mosconi Papadopoli o a Roma, con Cristina di Belgiojoso ed Enrichetta Di Lorenzo). Non è un caso che in queste esperienze del 1848/49 fioriscano i primi giornali scritti interamente da donne, dalla "Tribuna delle donne" (Palermo) a "Il Circolo delle donne italiane" (Venezia), a dimostrazione di come l'impegno politico si traduca anche nella consapevolezza e nella rivendicazione dei diritti, in una “rinascita delle donne e della nazione”, come scrivono le donne palermitane.

Né è casuale che la prima manifestazione suffragista in Italia sia organizzata a Venezia, in occasione del plebiscito del 1866, con tanto di documenti di protesta inviati al re, né che i primi Comitati per l'emancipazione delle donne italiane siano stati promossi dai repubblicani ( come quello di Napoli, a sostegno dei progetti di legge per la proroga del suffragio di Salvatore Morelli).

Le fonti rivelano anche un altro aspetto importante: il rapporto che lega le masse femminili alla Chiesa e le sue riflessioni nella storia delle donne e nel Risorgimento: dall'entusiasmo iniziale per le aperture di Pio IX, il "papa liberale", che si muove incerto e prefigura come "santa" la guerra di liberazione, spaesamento di fronte al suo capovolgimento, che spinge alcuni a una riflessione più articolata sulla necessità di rinnovamento spirituale della Chiesa; altri invece (come Nina Serego Allighieri o Giulia Caracciolo) verso un anticlericalismo più marcato (altro aspetto poco indagato).

Ma interrogarsi sul Risorgimento significa anche fare i conti con l'antirisorgimento delle donne: con i cattolici non liberali, per i quali l'unico riferimento restava la Chiesa e l'unica patria quella celeste, o le brigantesse, che erano - come ricorda Laura Guidi - non solo «manutengole», ma membri a pieno titolo delle bande.

Il mondo silenzioso dei primi è attraversato da un brivido quando la "questione romana" si pone con forza e il Syllabus Quanta (1864) sancisce una scissione radicale con lo Stato liberale; formano un esercito attivo in difesa della Chiesa, dando vita, in molte zone del Veneto all'inizio degli anni '70, alle Società delle donne cattoliche per gli interessi cattolici e promuovendo ovunque iniziative devozionali ed educative volte a contrastare il processo di secolarizzazione.

Di qui quella divisione interna del mondo femminile destinata ad avere ripercussioni così pesanti anche sul movimento di emancipazione italiano, e a portare alla scissione del Congresso Nazionale delle Donne Italiane del 1908, seguita dalla creazione dell'Unione Donne Cattoliche, voluta da Pio X in funzione antiemancipazionista.

Tuttavia, anche molti liberali, una volta entrata a far parte della classe dirigente la fase risorgimentale ("il tempo della poesia", come scriveva Ermina Fuà Fusinato), rimarranno in posizioni moderate, assumendo un ruolo pubblico di educazione, sì, ma anche di disciplinare le donne, che convoglia le tortuose istanze di cambiamento del mondo femminile in forme più domestiche e coerenti con i ruoli sessuali prefigurati dal codice civile Pisanelli. Eccoli dunque a distinguere tra patriottismo e politica, disegnando campi di azione diversificati per genere; qui stanno delimitando il concetto di emancipazione entro precisi steccati prefigurati da differenze "naturali" stabilite dalla Provvidenza; per sgridare come "emancipatori chiassosi" coloro che osavano rivendicare a pieno i diritti civili e politici, da Anna Maria Mozzoni a Gualberta Alaide Beccari.

Quanto pesava in questa involuzione moderata l'essere entrato a far parte della classe dirigente, con cariche pubbliche rilevanti anche nel campo dell'istruzione, un'omologazione al nuovo clima politico, e perfino una lettura del pensiero mazziniano in chiave conservatrice, decisamente squilibrata su i doveri (come sembra suggerire la lettura del recente libro di Simon Levis Sullam, L'Apostolo a brandelli. L'eredità di Mazzini tra Risorgimento e Fascismo, 2010), restano questioni del tutto aperte. La debolezza dell'Italia nel panorama emancipazionista europeo resta invece un dato di fatto fino al volgere del secolo, come ha sottolineato amaramente Sibilla Aleramo.

Quel che è certo è che il significato e il valore di questa cruciale fase storica non possono essere pienamente colti e analizzati in una prospettiva di genere, se non inquadrandola in una prospettiva diacronica che permetta di cogliere a distanza guadagni e perdite, radici e sviluppi. , assonanze e contrasti, progressi e regressioni nel susseguirsi delle generazioni. È quanto ha cercato di fare la Società Italiana degli Storici nell'importante convegno nazionale Di generazione in generazione. Gli italiani dall'Unità ad oggi (Firenze, 24-25 novembre 2011), storici, sociologi, scrittori a confronto. Perché è da questo percorso complessivo che bisogna partire per capire meglio il presente.

   DONNE, UOMINI E LA COSTITUZIONE. Un'altra storia è possibile 13 FEBBRAIO 2011: ORA BASTA! MANIFESTAZIONE DI DONNE E CITTADINI, PER LA LORO DIGNITÀ E PER UN'ITALIA NUOVA, OLTRE IL GOVERNO DEI “PAPI”. L'appello di "Se non ora QUANDO?" - e (a seguire) materiali sull'argomento

  Chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignità e diciamo agli uomini: se non ora, quando? è tempo di mostrare amicizia verso le donne.

  Chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignità e diciamo agli uomini: se non ora, quando? è tempo di mostrare amicizia verso le donne.

  Il grido da Piazza del Popolo "Rispetto per le donne"

Grande partecipazione al 'Se non ora quando?' Un grande striscione firmato dalle Donne del Sud: "Non chiamatemi escort, sono una puttana. Non chiamatemi puttana, sono una schiava". Tanti cartelli anti-Berlusconi: "Non contro Ruby ma contro il rubacuori'' e 'Io, donna cattolica, dico basta: Berlusconi vattene'*

Un boato scosse piazza del Popolo. E' stato "l'urlo di indignazione" come l'hanno definita gli organizzatori della manifestazione 'Se non ora quando?'. Un minuto di silenzio durante esso avvolse la piazza gremita all'inverosimile in un'atmosfera irreale. All'inizio dell'attrice Isabella Aragonese, l'incitamento a cui la piazza ha risposto "Adesso" è partito da Piazza del Popolo. Poi un enorme striscione è caduto dalla terrazza del Pincio con la scritta: "Vogliamo un Paese che rispetti le donne" e il grido di liberazione delle decine di migliaia di persone, stipate in una piazza troppo piccola per contenerle tutte.

Un gruppo di giovani attrici, salite sul palco di Piazza del Popolo a Roma, ha letto una serie di e-mail a sostegno dell'evento. Lettere di donne contro "il modello unico", contro la "superficialità" e "perché le donne non sono stupide e hanno deciso di reagire a tante cose che hanno ferito la nostra sensibilità". Sono messaggi inviati da giovani, meno giovani, mamme e precari. Sul palco sono stati invitati da Isabella Ragonese che, introducendoli, ha ricordato loro che in Italia "la cultura è un po' come le donne: molto forte, ma deve sempre combattere".

Un grande striscione firmato dalle Donne del Sud domina la piazza: "Non chiamatemi escort, sono una puttana. Non chiamatemi puttana, sono una schiava". E proprio sotto lo stendardo si sono alternate iniziative, la più apprezzata delle quali è stata un coro gospel. Anche la musica scelta per animare la piazza, in attesa dell'inizio degli interventi sul palco, è all'insegna dell'orgoglio femminile: da Respect di Aretha Franklin a brani più recenti come quelli di Siouxsie and the Banshees.

Nella sovrastante Piazza del Pincio, il flash mob è culminato con la comparsa del gigantesco stendardo fucsia. Poi è stato chiesto un minuto e mezzo di silenzio dal palco, che la piazza ha rigorosamente rispettato. Alla fine l'urlo liberatorio. Poi, dalla terrazza del Pincio, i manifestanti si sono recati in corteo verso piazza del Popolo.

Intanto, dietro uno striscione con la scritta "No sfruttamento, diritti e benessere per tutti sul nostro corpo", un centinaio di donne hanno sfilato per le strade del centro per "esprimere la loro solidarietà alle 'lavoratrici del sesso' e rivendicare i diritti delle donne" . I manifestanti, usciti da piazza Barberini, sono giunti al ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, dove hanno "rimandato la legge 40, il lavoratore connesso e la legge Tarsia", scritta su un pacco regalo. Le donne esibivano oggetti rossi come paillettes, ombrelli e magliette. Tra gli striscioni si legge: "Cervelli in fuga dal bunga bunga", "No ricerca-no Viagra', 'Vogliamo potere non Berlusconi', 'Non abbiamo fede e non la vogliamo nemmeno'". Non c'è divisione tra le donne perbene e le donne per il male", hanno spiegato i manifestanti, giunti in piazza del Popolo, per poi rientrare in corteo verso Trastevere.

Banner. L'immaginazione si è scatenata come di consueto attingendo a piene mani dall'attualità. Così, ad esempio, c'è chi collega il caso Ruby alla rivolta in Egitto alzando un cartello che dice 'Silvio, riporta la nipote a Mubarak', mentre in un altro si legge 'Io sono la nipote di... mio zio ' .

Due grosse scope, una professionale come operatore ecologico e l'altra più domestica reggono uno striscione con la scritta 'Fanculoli via'. Accanto c'è un cartellone che recita "Donna non contro Ruby ma contro il rubacuori". Sempre in tema, altri scritti, come 'Io, donna cattolica, dico basta: va via Berlusconi', 'La dignità delle donne salverà il nostro Paese', 'Io sono una donna, non sono una santa... anche.

Un Tricolore ha al centro sulla fascia bianca l'effigie di un maiale in cui si riconosce una caricatura del premier, mentre sulle fasce verde e rossa è scritto 'Questo non è il mio annuncio. Un altro segnale si riferisce alla manifestazione organizzata ieri da Giuliano Ferrara direttore de 'Il Foglio', a favore di Berlusconi: l'ex ministro giornalista è ritratto a torso nudo con la scritta in latino 'Mutatis mutandi', e dal latino si passa alla lingua inglese con un cartello 'doppio facè' con la scritta 'Le donne lo fanno meglio' da un lato e 'Caccialo fuori' dall'altro, dove il riferimento è ovviamente diretto al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Un coro spontaneo ha lasciato la piazza poco prima dell'inizio della manifestazione. Le donne che riempiono Piazza del Popolo hanno cantato l'Inno di Mameli. E con l'aumento delle persone sono comparsi anche altri cartelli e striscioni: "Fatti da non vivere da bruti", "Basta!", "Altre idee di donne, altre idee di uomini per un'altra idea di Italia". Molti sono i riferimenti a Silvio Berlusconi: "Per lui innamorato, l'età non è un legittimo impedimento", "Ancora con il club, ancora nella giungla se le donne fanno il bunga bunga", "Berlusconi indegno, dimettiti!".

La dignità delle donne riguarda tutti

Domani in piazza a dirlo

C'è un'importante assunzione di responsabilità collettiva in ciò che sta avvenendo che deciderà la vera modernità del nostro Paese. Molti hanno capito che questo è il momento di creare massa critica, in cui non c'è spazio per le ortodossie da difendere, la diversità da sfoggiare.

di Anna Finocchiaro (l'Unità, 02.12.2011)

Non ricordo, negli ultimi anni, un movimento di opinione così vasto, una produzione così ricca di documenti pubblici, una serie così numerosa di iniziative come quella che si sta svolgendo in questi giorni tra le donne italiane. Perché questa volta non è in gioco né il destino di una legge, per quanto definitiva dal punto di vista sostanziale e simbolico, come quella sulla violenza sessuale, né resistono divisioni politiche e concezioni di vita e di ruolo, come è successo con la legge sulla divorzio.

Questa volta è in gioco l'identità delle donne. Essendo donne italiane così come nei lunghi decenni si sono definite nella più sorprendente delle diversità. Che la rappresentazione mediatica si riveli un'altra è un'altra cosa. Riguarda il fatto che, a causa del ritardo culturale, della persistente ottusità e del condizionamento manifesto della potente macchina mediatica a disposizione di Berlusconi, le donne italiane sono raramente rappresentate per coloro che sono, invece, relegate, se tutto va bene, al ruolo di vittime, deboli, soggetti minori.

Ma le donne sono un'altra cosa. Uniscono lavoro, figli e impegno. Studiano perché vogliono affermarsi nella società, non scommettono tutto sulla loro attrattività, molti amministrano il bene pubblico senza aver dato nulla in cambio. Basterebbe guardarli, basta guardarli con premurosa curiosità (e sono oltre la metà della popolazione), per verificare di quale strabiliante innovazione sono stati capaci: nell'istruzione, nel lavoro, nel supplire a insufficienti e benessere arretrato, nella propria libertà, nella rottura di schemi e ruoli, a vantaggio della società italiana, del suo benessere, della sua crescita e sviluppo, della sua stessa deprovincializzazione.

Oggi affidiamo la formazione dei nostri figli alle insegnanti donne, la cura della nostra salute alle dottoresse, la leadership delle aziende, i nostri diritti e i nostri interessi a manager, giudici e professionisti che sono donne. Con percentuali, però, destinate a crescere, dal momento che i diplomati superano già statisticamente i maschi. Anche per questo, oggi, proprio oggi, le donne italiane sentono che la misura è piena e chiedono che la loro identità non venga manipolata.

Oggi, in questi giorni e in queste ore, le donne cercano visibilità per esigere rispetto e ottenere il riconoscimento della loro dignità.

Questa è una questione politica, non privata.

Capiamo bene che questa affermazione, l'autocoscienza che l'accompagna e la competizione che le donne oggi praticano in campi tradizionalmente maschili, possono spaventare. Il che fa temere di perdere ruoli e posizioni, soprattutto nelle classi dirigenti maschili del nostro Paese.

E capiamo che la condivisione, il dover mettere a disposizione almeno la metà delle opportunità e delle opportunità economiche (lavoro, carriera e potere) irrigidisce chi le detiene oggi principalmente. E poi, è preferibile che alcuni lo ignorino. Evita di guardare e vedere. Ed è naturale che il presidente Berlusconi, che ha una concezione del potere arcaica, totemica e illimitata, possa comportarsi solo come lui. Ammettendo, per gentile concessione, nei luoghi di opportunità, solo le donne che sceglie, certificandone sia l'attrattiva che la capacità. Quanto alle altre, sono l'archetipo delle donne che non infastidiscono, ma si limitano a "rallegrare". Con l'esibizione dei loro corpi in TV, con lo sfruttamento dei loro corpi in uno spazio che non è più solo privato, perché, per quanto ce ne lamentiamo, la separazione tra pubblico e privato è stata infranta dallo stesso Berlusconi, che di l'esibizione della sua fisicità fece un uso politico e le sue faccende private e familiari divennero un elemento di discussione pubblica.

Ma, di fatto, le donne italiane oggi pretendono di essere ritratte, e di ritrarsi a loro volta, per quello che sono. E non è più la pretesa di signoria su se stessi, per quanto precaria si sia dimostrata negli ultimi anni la signoria di ciascuno sul proprio corpo.

Oggi è un'altra cosa: è la pretesa perentoria di essere rappresentati, come genere collettivo, per ciò che si è e si è diventati. E stima, e rispetto sincero, per ciò che liberamente hai scelto di essere. Giocattolo per nessuno, oggetto di sfruttamento per nessuno, invece un soggetto dignitoso e libero, riconosciuto nella sua dignità e nella sua libertà. Tutto. Se fossimo abituati a pensarlo, forse ci renderemmo conto anche di quale potente strumento di integrazione questo potrebbe diventare per le donne in Italia che provengono da altri paesi, da altre culture, da altre religioni. Mi ha colpito, nella conversazione che ho avuto qualche giorno fa con una giovane donna velata, intelligente e simpatica, che mi ha confidato quanto perdesse l'occasione di andare in piscina per praticare il nuoto. In Italia, ha detto, sono tutti promiscui, e la mia religione mi chiede di non frequentarli. E ha aggiunto che forse solo una cooperativa di donne avrebbe potuto offrire questa possibilità a se stessa e alle sue sorelle. Non ci conoscevamo, ma le veniva naturale pensare che solo altre donne potessero riconoscere quel bisogno e quell'opportunità. Non è un caso.

Ma in quello che sta succedendo in questi giorni c'è anche qualcosa di nuovo. Ci dice il fatto che ogni appello, ogni lettera, ogni documento viene riconosciuto e firmato da chi a sua volta ne ha scritto un altro e ne ha firmati altri. E che questo avvenga spontaneamente, con la naturalezza con cui si risponde a un'urgenza, con la quale la si condivide.

Non c'è stanchezza politica, ma c'è, in questo stesso fatto, un fatto politico. Donne molto diverse hanno capito che, in effetti, questo è il momento e giustamente confidano nella forza di una massa critica in cui non c'è spazio per le ortodossie da difendere, la diversità da ostentare. Quindi in piazza il 13 febbraio ci saranno, ci saremo, tutti. Bene. Molto bene. Questo ci dice anche che le forze e gli sforzi profusi negli anni, da tante e tantissime donne per sé e per gli altri, non si sono consumate e disperse, come a volte temevamo, ma anzi, hanno dato fiducia in se stesse a nuove. generazioni di donne e si manifestano oggi, di fronte all'urgenza, come coscienza collettiva. Ancor di più, come coscienza nazionale.

Se mai fosse stato solo questo, oggi non è più una questione di genere, una rivendicazione di diritti e spazi. L'interlocuzione e le adesioni di tanti uomini alle tante vicende testimoniano un tema che finalmente si impone come generale. La dignità della donna come cartina di tornasole della crescita, dell'identità, del futuro italiano: c'è un'importante assunzione di responsabilità collettiva in ciò che sta avvenendo che deciderà la vera modernità del nostro Paese.

Una mobilitazione in tutte le città italiane domenica 13 febbraio per restituire dignità alle donne: se non ora quando? L'iniziativa politicamente più trasversale non poteva essere perché quanto emerge dalle carte dei pm della Procura di Milano sul caso Ruby, «un modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle più alte cariche dello Stato, colpisce profondamente stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignità della donna e delle istituzioni.Chiunque voglia continuare a tacere, sostenere, giustificare, ridurre lo stato di fatto a fatti privati, lo faccia assumendosi la pesante responsabilità per essa, anche di fronte alla comunità internazionale”.

Vi sono tra gli altri le firme di Francesca e Cristina Comencini, Rosellina Archinto, Gae Aulenti, le scrittrici Silvia Avallone e Michela Murgia, Lorella Zanardo e Rosetta Loy, Clara Sereni e Valeria Parrella, l'On. Pdl Giulia Bongiorno e Pd Anna Finocchiaro, la segretaria della CGIL Susanna Camusso, l'editore Inge Feltrinelli, la direttrice del Secolo d'Italia Flavia Perina, le attrici Margherita Buy, Angela Finocchiaro, Laura Morante, Lunetta Savino, Maria Bonafede del chiesa valdese e suor Eugenia Bonetti, Licia Colò, Claudia Mori.

La mobilitazione, partita oggi (per adesioni e informazioni, l'indirizzo email è mobilitazione.nazionale.donne@gmail.com) nasce dalla consapevolezza che in Italia la maggioranza delle donne lavora fuori casa o dentro casa, crea ricchezza, cerca un lavoro (e uno su due fallisce), studia, cura i rapporti affettivi e familiari, scrivono i firmatari.

  per adesioni e informazioni l'indirizzo email è

  mobilitazione.nazionale.donne@gmail.com

  Pari dignità al di là delle "grazie" del corpo, l'etica pubblica non è moralismo

  di Roberta De Monticelli (La Repubblica, 11 febbraio 2011)

Mi sono precipitato felice all'appello di Libertà e Giustizia, ed ero con le belle anime del Palasharp, azionisti "miserabili", come qualcuno ha scritto. Invece ho dimenticato di firmare l'appello in difesa della dignità della donna. Rimedio immediatamente. Ma forse c'è una ragione per cui la questione dell'immagine delle donne sembra passare in secondo piano rispetto al resto di ciò che sta accadendo.

Non è un caso che forse due scrittori che mi hanno preceduto nei loro interventi su questo giornale la prendano un po' larga, con due belle immagini, facendo della donna un simbolo, uno della verità violentata quotidianamente, l'altro della nostra povera Italia umiliata e offesa .

D'altra parte, non capisco un'accusa dell'accusa che altri fanno di "moralismo": questa parola mi sembra la parola più abusata dell'ultimo mezzo secolo. Questa parola che mezza Italia spara con disprezzo sull'altra metà, sui più sconcertati di fronte alle peggiori infrazioni all'etica pubblica che si possano immaginare, perpetrate peraltro da uomini (e donne) nel pieno abuso delle loro funzioni pubbliche.

Ma veniamo all'immagine delle donne, e al motivo per cui quasi le si dimentica, davanti a tutto il resto. Come ha scritto un signore che si definisce "liberale" - e certamente anche qui è degna di nota la tolleranza nell'abuso di parole - noi signore, almeno fino a una certa età, stiamo "sedute sulla nostra fortuna". Ma non lui? Ma state tranquilli che il sesso maschile resta, secondo quanto ci raccontano certi primi ministri e loro procuratori, molto affascinante ben oltre quell'età.

Ma vorrei anche chiedere al gentiluomo liberale se incoraggerebbe sua figlia o sua nipote a coinvolgere qualche utilizzatore finale di quella bella grazia su cui siede. Perché immagino che sua figlia o sua nipote, proprio come lui, vorrebbero essere riconosciute portatrici di altri valori e quindi di altre fortune rispetto a quella, spesso graziosa e sempre utile, parte del corpo. E quindi si sentirebbero un po' offensivi nel sentirsi monetizzati in relazione esclusiva a quella parte. Esatto, suppongo, come lui.

Se, invece, ci fosse qualcuno, un bellissimo stallone, diciamo, che umilmente e orgogliosamente rivendicasse il suo stallone come la sua più grande gloria, e/o la sua migliore risorsa economica, gradito stallone: ​​questa sarebbe la sua legittima scala di valori, per così dire il suo ethos; e poiché è sua, nessun altro può metterci il becco - nella misura esatta, naturalmente, in cui non viola né il codice penale né il rispetto dovuto a nessun'altra persona. Né, ancor più evidentemente, la diversa scala di valori necessariamente legata a un ufficio oa una funzione pubblica. (Un danno orrendo sarebbe certo - ipotesi inimmaginabile! - un presidente del Consiglio che praticò ed esaltò l'arte dello stallone come sua migliore virtù).

In conclusione: una cosa è sentire e scegliere i valori del sedersi, come la cosa migliore e più preziosa di sé; tutt'altra cosa è che un altro gliela imponga, magari solo per via di generalizzazioni illiberali, come: Non lo vedete, bei uomini, seduti sul vostro vero valore?

Ecco, il problema è tutto qui. Questa domanda era un'introduzione elementare al concetto di "avere pari dignità e diritti", cioè al principio che sta alla base non solo della giustizia morale personale, ma anche dell'etica pubblica, e dell'intera gamma dei diritti civili, politici e sociali. , su cui si fonda una democrazia liberale. Ma se anche i grandi “liberali” in Italia non hanno ancora capito questo principio, vale davvero la pena tornare in piazza, per riaffermarlo.

Cosa possiamo fare noi uomini, se non vergognarci e simpatizzare con loro, le donne?

Tra noi, promotori e fruitori di tanto degrado, l'uso delle donne aggredisce in maniera insopportabile, cosa che, dall'altra parte, trova risposta in una minoranza disponibile!

Ecco il messaggio di solidarietà che ho inviato a tutte le donne che domani manifesteranno la loro ribellione.

Giornata felice e triste oggi.

Triste perché è umiliante il fatto stesso di dover rivendicare la dignità della donna che dovrebbe essere un prerequisito di qualsiasi Paese che voglia dire civile.

Felice perché nel silenzio complice di una società distratta hai il coraggio di gridare la tua rabbia e, allo stesso tempo, respingerla contro una politica che sporca te, le tue bellezze, i tuoi corpi e la tua dignità.

Purtroppo il modello maschile mostratoci dalla politica è triste ed è il terreno in cui cresce la violenza contro le donne.

Il mercante che ci governa e i mercenari che lo sostengono continuano a imprimere con moralismo questa tua battaglia per la dignità.

Ma sappiamo tutti bene che non è tanto un problema di moralità quanto, anzi, una questione di dignità. Quella dignità che non conosce chi compra e vende le persone, le butta via, le ricatta e le estorce. Dignità del tutto estranea a chi, drogato dal potere e dall'avere, non conosce altro che la maschera di se stesso e dei suoi cloni.

Questa non è una battaglia di partito oggi, ma una battaglia di civiltà!

Le donne dicono basta. Se non ora quando?

di Michela Marzano (la Repubblica, 31.01.2011)

Bella immagine dell'Italia! Per chi sembrava ossessionato dall'idea che si potesse farlo all'estero nel nostro Paese, accusando alcuni intellettuali di “tradire l'Italia” con i loro libri e articoli, il risultato è ottimo. Perché oggigiorno ovunque si parla solo delle serate "bunga-bunga" del nostro premier. Rubino e Iris. Di seni e raccomandazioni. Di prostitute minorenni "ricoperte d'oro" per tenere la bocca chiusa... Bella l'immagine della donna. Ma anche dell'Italia, che da anni ha chiuso gli occhi sul baratro in cui cadevano le donne. Perché ormai non si tratta più nemmeno della semplice trasformazione della donna in corpo-immagine, ma della sua progressiva e inevitabile riduzione a corpo “usa e getta”. Eccoci qui. Di nuovo impigliato nelle reti patetiche degli Arcana Imperii: segreti, corruzione, orge. Forse è per questo che non possiamo più tacere, e che nei prossimi giorni ci saranno numerosi appuntamenti per dire "basta". Basta, tra gli altri, diranno Eco, Saviano e Zagrebelsky il 5 febbraio a Milano, durante la manifestazione organizzata da Libertà e Giustizia. Basta, il popolo viola lo ripeterà il giorno dopo. Basta, dirà la procura di Milano, tante donne lo segneranno, in tutte le città italiane, il 13 febbraio... Il re ora è nudo. Se non scendiamo in piazza adesso per difendere dignità, uguaglianza e rispetto, quando?

Negli ultimi anni, sembra di aver assistito a un film X senza fine. Un film pornografico senza fine in cui tutto si riduce a "ripetizione", "performance" e "accumulazione". In cui uomini e donne sono perfettamente complementari: attivi e passivi; potenza e disponibilità. In cui si moltiplicano le scene in cui "i maschi infuriano su un pezzo di carne femminile", per usare le parole di John B. Root, il famoso produttore cinematografico francese X, quando descrive il suo "lavoro". In cui "l'uno vale l'altro", l'uno "scaccia" l'altro, e nessuno, in fondo, conta molto. Perché sono solo ciondoli intercambiabili. E quando qualcuno non serve più, c'è subito un nuovo ingresso. Peccato però che non si tratti di una semplice finzione. Peccato che sia la fotografia, questa volta non ritoccata dal nostro premier, dell'Italia di oggi...

Ed è inutile che qualche moralista trasandato commenti cinicamente che tutto questo non è altro che il risultato della liberazione sessuale, l'inevitabile conseguenza dell'Io sono mio. Perché quando le donne si battevano per rivendicare la libertà di disposizione del proprio corpo, lo scopo era riappropriarsi del proprio destino, diventare attrici della propria vita, impedire ad altri di decidere per loro come vivere, cosa fare, come comportarsi. . Ma affinché la libertà non rimanga solo un valore astratto e non si trasformi, nel tempo, in una nuova forma di "servitù volontaria", come spiegava già nel XVI secolo il filosofo francese Etienne de La Boétie, è necessario organizzare la condizioni idonee al suo esercizio, primo fra tutti l'uguaglianza. Se le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini e se non hanno la possibilità materiale di farli rispettare, non possono essere automaticamente libere di scegliere ciò che vogliono o di fare ciò che vogliono. Che libertà esiste allora in un Paese che tratta le donne come una merce, che le umilia quando si ribellano, che le "ricopre d'oro" quando si prostituiscono ancora minorenni per tacere?

Da "sii bella e taci" siamo arrivati ​​a "venditi e taci": dimentica che sei una persona, spogliati, fammi gioire e ti farò diventare una donna ricca e famosa! Se sei bravo, potresti anche ottenere un seggio in parlamento... Non devi essere un filosofo per capire il ricatto. Per capire quanto disprezzo circondi oggi le donne. Come se, nonostante tutte le battaglie combattute negli anni Sessanta e Settanta per garantire uguaglianza e dignità alle donne, per liberarle dal giogo millenario della sottomissione e dell'inferiorità, la donna non potesse essere altro che un oggetto di cui l'uomo deve poter organizzare a piacimento. "Tutto" è semplice. "Tutto" va da sé. Non c'è bisogno di perdere tempo con ridicole manine...

Quello che ognuno di noi fa nella propria camera da letto, con il proprio uomo o donna, non riguarda nessuno. Ma quando la sessualità diventa una tangente, quando usi il tuo potere per fare di una donna un giocattolo, quando pensi di farla franca perché dopotutto le donne non contano... allora è in corso un processo di disintegrazione della società. Perché, parafrasando Albert Camus, il valore di un'azienda dipende anche da come vengono trattate le donne. Dall'immagine che se ne ha. Dal margine di manovra che hanno. Come giudicare allora un Paese in cui, trattando le donne come una semplice merce, vengono umiliati tutti coloro che lottano quotidianamente per difenderne la dignità, per acquisire le competenze necessarie per ottenere incarichi di responsabilità, per dimostrare di essere efficienti e affidabili? "Più lei è disperata, meglio è per lui", ha detto Nicole Minetti, ora indagata dal premier per induzione alla pornografia. Una bella lezione di civiltà per le nostre giovani!

Ma ora il tempo del silenzio è finito. Perché le donne che si indignano sono sempre più numerose e vogliono farlo conoscere. E in tanti si stanno mobilitando per la manifestazione del 13 febbraio in tutte le città italiane. Hanno ragione anche gli organizzatori: se non ora, quando? Nonostante le intimidazioni. Nonostante la presa in giro. "E' tutta colpa della bomba", sbraitava Il Giornale qualche mese fa. "Scusi in che senso?" L'ho chiesto a Feltri di recente durante una puntata de L'Infedele. Ma l'Italia di oggi è ancora questa. Cambia le carte in tavola. Passare i torturatori per le vittime. Incolpa ancora e ancora le donne. Dopo aver rubato le loro anime. Dopo averli ridotti a "corpi usa e getta". Quindi sì, è ora di reagire e trasformare l'indignazione in azione. Se non ora quando?

Ci sono anche altre donne. C'è San Suu Kyi, che dice: “Un'esistenza significativa va oltre la semplice gratificazione dei bisogni materiali. Non tutto si può comprare con i soldi, non tutti sono disposti a essere comprati. Quando penso a un Paese più ricco non penso alla ricchezza in denaro, penso a meno sofferenza per le persone, rispetto delle leggi, sicurezza di tutti, educazione incoraggiata e capace di ampliare gli orizzonti. Questo è il sollievo di un popolo».

Osservo le ragazze che entrano ed escono dalla questura in questi giorni: portano borse firmate grandi come valigie, scarpe Manolo Blanick, occhiali giganti che costano quanto un appartamento in affitto. È quello che passano le loro notti travestiti da infermiere fingendo di fare iniezioni e farsele fare da un vecchio miliardario ossessionato dalla sua virilità. È perché pensano che questa sia la fortuna: una valigia Louis Vuitton al braccio e un autista come Lele Mora. Lo pensano perché l'hanno visto e sentito, questo dà l'esempio al potere, alla sua tv e ai suoi dirigenti, alle politiche fatte elette per le loro doti di maitresse, alle starlette televisive che diventano titolari di ministeri. Ancora una volta, il baratro non è politico: è culturale. È assenza di educazione, cultura, consapevolezza, dignità. L'assenza di un'alternativa altrettanto convincente. Questo è il danno prodotto dai quindici anni che abbiamo vissuto, questo è il delitto politico commesso: il vuoto, la fuga in caduta libera verso il medioevo catodico, l'Italia finalmente ridotta a un bordello.

Sono sicuro, so con certezza che la maggior parte delle donne italiane non è in fila per il bunga bunga. Sono certo che la prostituzione consapevole come forma di emancipazione dal bisogno e anche come strumento di accesso ai desideri effimeri sia la scelta, se scelta a queste condizioni, si può dire, di una minoranza minima. È dunque alle altre, a tutte le altre donne che mi rivolgo. Lo faccio da due anni, ma oggi è il momento di rispondere a voce alta: dove siete ragazze? Madri, nonne, figlie, nipoti, dove siete. Destra o sinistra che siate, povera o ricca, del Nord o del Sud, donne figlie di un tempo che altre donne prima di voi hanno fatto piene di pari possibilità e libere, dove siete? Credi davvero di poter alzare le spalle, puoi dire che non mi riguarda? La grande domanda che pesa oggi sull'Italia non è cosa fa Silvio B. e perché.

La vera domanda è perché gli italiani e gli italiani gli permettono di rappresentarli. Il problema non è lui, sei tu. Quello che il mondo ci chiede è: perché lo voti? Non può essere un'inchiesta della magistratura a decretare la fine di Berlusconi, dobbiamo essere noi. E non può essere la censura dei suoi vizi senili a condannarlo, né l'accertamento dei delitti che ha commesso: si occupi dei delitti la magistratura, i vizi restino miserie private.

Quello che non possiamo, quello che non puoi permettere è questo senile delirio di impotenza rifiutato da un uomo che ha soldi - e come ha fatto a farlo, a danno di chi non ti chiedi mai? - a pagare ea comprare cose e persone, spettacoli e silenzi, isole e leggi, deputati e puttane portate a casa come pizze, continui ad essere il primo tra gli italiani, il modello, l'esempio, la guida, il maestro.

Lo sconcerto, lo sgomento non sono le carte che mostrano - al di là dei delitti, al di là dei vizi - un potere decadente fatto di bolsa e corte ottuagenarie di lacchè che fanno soldi alle spalle del despota malato. Lo sgomento sono i padri, i fratelli che rispondono, la domanda è sua figlia, sua sorella la fidanzata del presidente: “Forse”. Un popolo di persone trattenute, che manda le proprie donne a fare sesso con un vecchio per portarsi i soldi a casa, magari prenderli. Siete tutti? Non credo, non credo che la maggioranza lo sia. Ma allora è il momento di dirlo.

* l'Unità, 19 gennaio 2011: http://concita.blog.unita.it/le-altre-donne-1.266857.

Perché gli uomini uccidono le donne?

Molti di questi delitti passionali definiti sono il sintomo del declino dell'impero patriarcale. La violenza non riguarda solo i pazzi, i mostri, i malati. E il contesto sociale poco importa: l'autonomia femminile non è accettata

Continuano ad essere chiamati crimini passionali. Perché il motivo sarebbe l'amore. Quella che non tollera incertezze e colpe. Ciò che è esclusivo e unico. Quello che spinge l'assassino a uccidere la moglie o il partner proprio perché la ama. Come dice Don José nell'opera di Bizet prima di uccidere il suo amante: "Sono io che ho ucciso la mia amata Carmen". Ma cosa resta dell'amore quando la vittima non è altro che oggetto di possesso e gelosia? Che ruolo gioca una donna in una relazione malata e ossessiva che la priva di ogni autonomia e libertà?

Per secoli, il "dispotismo domestico", come lo definì il filosofo inglese John Stuart Mill nel XIX secolo, fu giustificato in nome della superiorità maschile. Dotate di una natura irrazionale, "uterina", e solo - o principalmente - utile alla procreazione e alla gestione della vita domestica, le donne dovevano accettare ciò che gli uomini decidevano per loro (e per il loro bene) e sottomettersi alla volontà del padre . familiari. Mancando di autonomia morale, furono costrette a incarnare tutta una serie di "virtù femminili" come l'obbedienza, il silenzio, la fedeltà. Caste e pure, dovevano essere conservate per il legittimo coniuge. Fino alla rinuncia definitiva. In sostanza, disinteresse per il proprio destino. A meno che tu non accetti il ​​divieto dalla società. Essere considerate donne di cattiva reputazione. E, in casi estremi, subire la morte come punizione.

Le battaglie femministe del secolo scorso avrebbero dovuto far uscire le donne da questa terribile impasse e rompere definitivamente la divisione tra "donne buone" e "donne cattive". In nome dell'uguaglianza tra uomini e donne, le donne hanno lottato duramente per rivendicare la possibilità di essere contemporaneamente mogli, madri e amanti. Come diceva uno slogan del 1968: "Non più puttane, non più madonne, ma solo donne!". Ma i rapporti tra uomini e donne sono davvero cambiati? Perché i delitti passionali continuano ad essere considerati "delitti separati"? Com'è possibile che la violenza contro le donne sia in aumento e sia ormai trasversale a tutte le sfere sociali?

Più la donna cerca di affermarsi come pari in dignità, valore e diritti all'uomo, più l'uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo qualche briciola di potere lo rende volgare, aggressivo, violento. Grazie ad alcune indagini sociologiche, oggi sappiamo che la violenza sulle donne non è più l'unico modo in cui un pazzo, un mostro, un malato può esprimersi; un uomo che proviene necessariamente da un ambiente sociale povero e ignorante. L'uomo violento può provenire da una buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Non importa che lavoro fa o la posizione sociale che occupa. Sono uomini che non accettano l'autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla alla loro volontà. A volte sono insicuri e hanno poca fiducia in se stessi, ma invece di cercare di capire cosa c'è di sbagliato nella loro vita, incolpano le donne e le considerano responsabili dei loro fallimenti. Progressivamente, trasformano la vita di una donna in un incubo. E, quando la donna cerca di ricostruire la sua vita con un altro, la cercano, la minacciano, la picchiano, a volte la uccidono.

Paradossalmente, molti di questi delitti passionali non sono altro che il sintomo del "declino dell'impero patriarcale". Come se la violenza fosse l'unico modo per scongiurare la minaccia della perdita. Continuare a controllare la donna. Ridurlo a mero oggetto di possesso. Ma quando la persona che ami non è altro che un oggetto, non solo il mondo relazionale diventa un inferno, ma anche l'amore si dissolve e scompare. Naturalmente, quando ami, dipendi in parte dall'altra persona. Ma la dipendenza non esclude mai l'autonomia. Al contrario, a volte è proprio quando sei consapevole del valore che un'altra persona ha per te stesso che puoi capire meglio chi sei e cosa vuoi. Come scrive Hannah Arendt in una lettera a suo marito, l'amore ci permette di realizzare che, da soli, siamo profondamente incompleti e che è solo quando siamo accanto a un'altra persona che abbiamo la forza di esplorare aree sconosciute della nostra. essere. Ma per amare bisogna anche essere pronti a rinunciare a qualcosa. L'altro non è del tutto a nostra disposizione. L'altro resiste al nostro tentativo di trattarlo come una semplice "cosa". È tutto questo che gli uomini che uccidono per amore dimenticano, non sanno o non vogliono sapere. E che pensano di salvaguardare la propria virilità negando all'altro la possibilità di esistere.

di Liliana Cavani ed Emma Fattorini (Il Sole-24 Ore, 27 dicembre 2009)

Una domanda pacata ma radicale: perché le diverse componenti che animano la chiesa, divise su tanti aspetti però, hanno in comune un sorprendente silenzio sulle donne? Un appello stanco e alla moda, frutto più di pretese esteriori che di una vera convinzione, cosa ci sarebbe di logico di fronte a un segno dei tempi così evidente?

I motivi sono tanti e come sempre quasi tutti dettati dalla paura. Ma forse non aiuta una fides che, pur riconoscendo giustamente le "ragioni della ratio", finisce per trascurare troppo la dimensione dell'esperienza, della relazione personale e in definitiva del corpo e della sua vita. Nella sua concreta incarnazione nell'uomo e nella donna, come ci ha ricordato Wojtyla, nei discorsi troppo dimenticati sul corpo che teneva il mercoledì mattina. Con quale “ragione”, con quale pensiero laico e razionale il cristiano oggi è invitato ad aprirsi e misurarsi?

Con una ragione e una teologia troppo disincarnata che non vede la verità nell'esperienza religiosa fatta dall'incontro con Cristo come persona. La paura del soggettivismo-relativismo rischia di perdere la ricchezza spirituale che esiste nell'entrare in contatto con il Signore anche con il corpo, con le emozioni, con tutta la propria persona e non solo con la testa, non solo con il pensiero. E così si perde quell'unità della persona che deve unificare e non separare le diverse esperienze umane.

Non si può certo dire che le aspettative suscitate dalle parole che Giovanni Paolo II aveva dedicato alle donne, parlando di “genio femminile”, visione che poi Joseph Ratzinger approfondiva, siano state onorate. La grande novità delle affermazioni contenute nella Mulieris dignitatem non stava tanto nel riconoscere l'uguaglianza delle donne con gli uomini, ma nel comprendere finalmente che le donne, non più mascherate dalla loro identità più profonda, potevano e dovevano essere protagoniste, con pari dignità. alla costruzione di un mondo condiviso: questa è la straordinaria novità di quelle belle parole. Non quindi l'ennesimo riconoscimento retorico di un'essenza femminile idealizzata e disincarnata, ma la sua concreta promozione nella società senza snaturarne l'intima identità. Tutto questo avrebbe richiesto un maggiore "investimento" nelle donne e non viceversa. La rivendicazione del sacerdozio femminile non c'entra niente. Non è quello che chiedono le donne. E la loro influenza e le loro aspettative diverse, mirano direttamente a Dio e non a diventare sacerdoti. Non trarne tutte le conseguenze pratiche di come può agire il "genio femminile" nel mondo non solo impoverisce la Chiesa cattolica ma finisce per tradire la sua stessa vocazione di civiltà; il ruolo delle donne è infatti oggi e sarà sempre più il cuore dei grandi cambiamenti di tutte le culture del mondo, la cartina di tornasole dei loro processi di democratizzazione e umanizzazione.

Cosa fare perché agli autorevoli riconoscimenti del Magistero seguano finalmente atti di grande importanza e concretezza? È troppo ingenuo pensare all'urgenza anche di un Sinodo sulle donne?

La credente capace di parlare a tutti, ecco Rosy Bindi

di Roberto Monteforte (L'Unità, 27 novembre 2009)

Rosy la «pasionaria», la Toscana tenace. La "credente" rispettosa dei dettami della Chiesa, ma capace di assumersi autonomamente le proprie responsabilità politiche e istituzionali pagando anche il prezzo dell'incomprensione, come le è successo da ministro della famiglia quando ha avanzato la proposta della Dico (il riconoscimento dei diritti dei conviventi). Che si confronta apertamente sulla bioetica e sul fine vita, sui nuovi diritti in una società sempre più multietnica e multiculturale, e sui temi dell'identità, della sicurezza, dell'ospitalità. Di sviluppo e democrazia economica.

C'è tutto questo in "Cos'è di Cesare" (editore Laterza 127 pagine, costo 10 euro) la sua biografia politica, non solo raccolta, ma anche sollecitata - soprattutto sui temi bioetici - dalla cronista parlamentare Giovanna Casadio. Pagine dense e sincere che parlano di una scelta di vita al servizio del bene comune. Una scelta di un "credente" che fa propria la dimensione della laicità, non solo come affermazione dell'autonomia del politico cattolico, ma anche di una politica che non può essere totalizzante, che deve avere dei limiti precisi. “In fondo, la critica più radicale al potere assoluto e al cesarismo si trova nel Vangelo, perché – spiega – a Cesare si restituisce il denaro e la persona, la sua libertà e dignità non vengono mai consegnate”.

Lo afferma mettendo in guardia dagli ideologismi dogmatici clericali e laici. Indica un modo, quello del confronto, dell'ascolto delle ragioni dell'altro. È così che si combatte il "cessismo moderno" e si ripristina la dignità etica della politica. È l'esperienza della laicità del cattolicesimo democratico che Bindi ripropone. Esperienza "di minoranza", ma essenziale all'interno del cattolicesimo politico.

Con due assi principali, essenziali e di grande attualità: la lezione del Concilio Vaticano II e la Carta Costituzionale. Coniugare principi liberali e questione sociale, costruire una democrazia moderna: questa è stata la lezione "laica" di Alcide De Gasperi e Aldo Moro, fautori di un progetto politico convincente anche per i laici. Bindi lo aggiorna. Lo fa smascherando i tentativi del "diritto in nome di Dio" di presentarsi come l'unico vero interprete dei valori che sono cari alla Chiesa. Sottolinea il basso tasso di laicità di chi è alla ricerca del “voto del cielo”. Invita al coraggio politico non solo i cattolici chiamati a misurarsi con la sfida bipolare, lasciandosi dietro inutili nostalgie neocentriste. Ma anche l'intero Pd: il partito che si considera l'erede naturale di questo percorso. Dobbiamo guardare avanti.

  Pregiudizio e religione Donne e quella sacra violenza

di Enzo Mazzi (l'Unità, 26/11/2009)

Nella Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza sulle donne che si è svolta ieri, si sono sprecate analisi, denunce, risoluzioni e programmi. Ma la violenza è stata per lo più diminuita in termini fisici. Le ferite sul corpo sono molto gravi ma non sono le uniche. Poche analisi e denunce e progetti per eliminare la violenza che si annida negli snodi profondi delle culture, nei consueti modelli di comportamento quotidiano, nelle strutture rituali ideologiche e simboliche delle religioni comprese quelle cristiane e cattoliche.

Ad esempio, la violenza del "sacro" contro le donne è quasi un tabù. A volte esce allo scoperto come quando le donne che abortiscono vengono accusate di essere assassine e scomunicate e chiedono di nuovo la prigione. Ma più spesso è sottile, pervasivo e strisciante. I fuochi delle streghe si sono spenti ma non si è spento il progetto politico che c'era dietro, ovvero la cancellazione della soggettività femminile come soluzione finale per il moderno dominio sulla natura e sulle coscienze.

La donna che ha potere sulla vita è di per sé una pericolosa concorrente di qualsiasi sistema di dominio, non solo quello religioso.

Non solo l'Inquisizione cattolica ha acceso i fuochi. I rappresentanti della nuova scienza medica hanno contribuito sistematicamente con i loro specifici consigli al controllo del limite di tolleranza biologica della tortura delle streghe. Lo hanno fatto per denaro, ma anche per strategia politica: volevano mani libere nella loro sperimentazione e miravano al monopolio della medicina e al controllo sulla sua organizzazione, teoria e pratica, profitti e prestigio. Il rapporto con la natura di cui le streghe erano portatrici è stato cancellato dagli incendi e non è mai stato recuperato. La modernità ha così percorso il suo cammino di distacco dal naturalismo femminile per giungere all'attuale dominio aggressivo e violento dell'individuo verso il resto del mondo, in una guerra di tutti contro tutti regolata e paradossalmente moderata dal ricatto atomico.

Una vera riparazione storica è indispensabile in tutte le culture e religioni, in tutti gli ambiti della vita, per i delitti commessi fin dalla tenera età contro le coscienze femminili, contro la loro dignità, il loro sapere, la loro anima e il loro corpo, la loro capacità generativa e creativa, poi e solo allora sarà possibile una vera pacificazione del mondo. Sono ancora troppo poche le realtà che, come le comunità di base, mirano a scoprire, sradicare e combattere la violenza contro le donne che si annida negli angoli più profondi della società, della cultura e della vita e in particolare nelle strutture del sacro. ?

  Il messaggio del Presidente della Repubblica in occasione della Giornata internazionale: "Oltre 140 milioni di vittime di abusi di ogni genere"

  Napolitano: "La violenza sulle donne è un'emergenza globale"*

ROMA - "Molto resta da fare in ogni parte del mondo per sradicare una concezione della donna come oggetto di cui anche appropriarsi": lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio diffuso in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

"La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne deve rappresentare - afferma Napolitano - un'occasione per riflettere su un fenomeno purtroppo ancora drammaticamente attuale, individuando gli strumenti adeguati per contrastarlo in quanto coinvolge tutti i Paesi e rappresenta una vera emergenza su scala mondiale" .

“Il convegno su questo tema svoltosi a Roma in occasione del G8 ha fornito dati che – ha ricordato il capo dello Stato – stimano che oltre 140 milioni di donne siano vittime di violenze di ogni tipo. Matrimoni forzati che coinvolgono anche ragazze, mutilazioni genitali, lo stupro generalizzato in contesti di guerra non deve apparirci lontano ed estraneo a noi. Il dolore di quelle donne, di quelle ragazze ci riguarda tutti, anche perché la barbarie della violenza sulle donne non è stata debellata nemmeno nei Paesi economicamente e culturalmente avanzati” .

«Rimane molto da fare in ogni parte del mondo per sradicare una concezione della donna come oggetto di cui anche appropriarsi: è infatti la persistenza di questi schemi mentali aberranti che favorisce la riproduzione di atti di oppressione insopportabili anche nel famiglia". Purtroppo, anche in Italia sono innumerevoli gli episodi di violenza sulle donne: «È triste dover ricordare - sottolinea infatti Napolitano - che anche in Italia, nonostante la recente introduzione di norme opportunamente più severe, casi di violenza, soprusi e intimidazioni sono in aumento ".

“I necessari interventi di tipo repressivo, da esercitarsi con rigore e senza indulgenza, devono essere accompagnati – conclude il presidente – ad azioni concrete per diffondere, prima di tutto nelle scuole e nella società civile, una concezione della donna rispettosa della sua dignità di persona e contrastare visioni volgari di natura puramente consumistica spesso veicolate anche dal linguaggio dei media e della pubblicità. Solo così sarà possibile creare una cultura di autentico rispetto, soprattutto sul piano morale, nei confronti delle donne”.

Libri: Haddad, da "Il ritorno di Lilith" una speranza per tutte le donne oppresse "Spero che sia un punto di incontro tra Medio Oriente e Occidente

Roma, 21 ott. - (Aki) - "Spero che questo libro rappresenti una speranza per le donne arabe oppresse, ma anche per le donne italiane, e che sia un punto di incontro tra Medio Oriente e Occidente". E' quanto ha raccontato ad AKI - ADNKRONOS INTERNATIONAL la poetessa e giornalista libanese Joumana Haddad, in Italia per presentare il suo nuovo volume 'Il ritorno di Lilith' (ed. L'asino d'oro), disponibile da domani in libreria.

Il poeta spiega i motivi che l'hanno portata a scrivere un'opera in cui l'antico mito di Lilith, la prima donna creata, non volle sottomettersi ad Adamo, ma anzi lo abbandonò in cielo con un atto di disobbedienza. “Ci sono molti luoghi comuni sulle donne arabe in Occidente – dice Haddad – la maggior parte crede che tutte le donne arabe siano oppresse e velate. Si tende a generalizzare, mentre in verità ci sono molte più sfumature e c'è anche un altro modello di donna nella società araba, emancipata e libera, che lotta per i suoi diritti”.

'Il ritorno di Lilith', prima opera completa in italiano di Haddad, è un libro scritto "con le unghie", secondo il poeta libanese per il quale "scrivere è prima di tutto un atto fisico, violento e aggressivo, ma solo verso me stesso". "È qualcosa - dice - come scavare con le unghie nella carne per andare a pescare i segreti, i misteri, le parole nascoste che sono in me".

Haddad in Libano è caporedattore di 'Jasad', una rivista in lingua araba specializzata in letteratura e arti del corpo, che tratta temi come la sessualità ei diritti delle donne, temi di cui è difficile parlare nella società araba. . "Jasad è una rivista per uomini e donne - dice Haddad - che tratta il tema del corpo, anche se non è facile affrontare questo argomento nella mia lingua e nel mio mondo. Eppure, se torniamo ad alcuni Scritti millenari in arabo fa ci sono testi che parlano del corpo e dell'erotismo con una semplicità che sconvolgerebbe anche lo scrittore occidentale più aperto”.

Il poeta libanese non teme le ritorsioni dei gruppi religiosi più estremisti. “Quando ho scritto 'Il ritorno di Lilith' non pensavo che gli estremisti fossero un ostacolo alla sua realizzazione - racconta - mi appassionava l'idea di scrivere quest'opera e l'ho fatto, anche se molti credono che abbia gettato io nel fuoco".

L'ultimo pensiero di Haddad è per Rania, la regina di Giordania, in visita ufficiale a Roma. "Ho molto rispetto e ammirazione per la regina Rania - dichiara lo scrittore - perché non accetta il modello stereotipato della donna araba oppressa che non ha potere e che vive lasciandosi andare alla volontà dell'uomo". (Spi / AKI)

Poesia: Joumana Haddad, con Lilith un successo gigantesco

(AGI) Roma, 2 nov. - Quasi 2.000 copie vendute in poco piu' di una settimana, un folto pubblico entusiasta ha affollato le sue presentazioni, numerose interviste radiofoniche e televisive e la stampa. Sono questi i dati del grande successo di Joumana Haddad con 'Il ritorno di Lilith', prima opera completa in italiano edita da 'L'Asino d'oro, nel suo tour italiano appena concluso.

"Non è stato un grande successo ma un successo gigantesco!", ha commentato la scrittrice libanese, annunciando una nuova avventura letteraria sempre con l'Asino d'Oro per il 2010. E, assicura, nel suo stile: scrivere con le unghie perché le piace scavare , andare in profondità.

Come ha fatto con 'Lilith Return' per frustare le donne: perché non fate sentire le vostre voci? Non mostri le unghie? Quali sono le ragioni di questo 'gigantesco successo' che, tra l'altro, smentisce il luogo comune che nessuno legge poesie?

"Prima di tutto il valore letterario dell'opera. Poi l'opera, il riflesso del poeta che deve sostenere, accompagnare il testo non per negarlo ma rendendolo più solido e forte", rispose Haddad con certezza e soddisfazione. «Quindi l'ottimo lavoro della casa editrice - aggiunge - e infine la qualità della traduzione: questi i quattro elementi del gigantesco successo. E direi non solo del libro in sé. Ma del dialogo culturale che ha più valore del dialogo. politico".

'Il ritorno di Lilith', è un libro di poesie e tratta un tema molto attuale ma allo stesso tempo controverso: la donna e il suo essere, e poi il suo ruolo nella società. "Verissimo - precisa Haddad - Il libro ruota intorno alla donna, alla sua identità, al suo essere: e in questo sta il suo valore letterario".

E possiamo dire che il suo valore culturale sta proprio in questo, che si integra con il dialogo culturale di cui parlavi? "Sì, sono d'accordo, abbiamo tutti bisogno - spiega Haddad - di dialogo a livello culturale, che ha più valore del dialogo politico, perché ci sono segnali più solidi di sensibilità e comunicazione da parte della gente".

Chi ha poca fiducia nella politica. "Sono convinto che è dal dialogo culturale che ci conosciamo meglio, sempre di più - precisa Haddad - e più profondamente".

Insomma, contaminarsi come cultura, tradizione, modo e stile di vita. "Sì, è quello che penso", sottolinea Haddad anche sulla base del grande successo, o meglio del gigantesco successo, riscontrato alla presenza del pubblico. Joumana Haddad, e lo ha spiegato bene, vuole, con 'Il ritorno di Lilith', scatenare e poi alimentare una 'speranza' per le donne arabe oppresse ma anche di altri Paesi, Italia compresa: del resto, l'oppressione delle donne, anche sebbene se registra modalità differenti sul piano fisico, è identico nell'intenzionalità.

E Lilith, la prima donna creata che non si sottomise e non si rese schiava di Adamo, è la speranza per le donne. Pertanto, "le donne si ribellano - è il messaggio di Haddad - fate sentire la vostra voce, mostrate le vostre unghie". (AGI)

Barack Obama "femminista" critica gli uomini "noiosi"

Inserito da: Alessandra Farkas alle 18:07 *

NEW YORK - "In molte famiglie ogni tanto bisognerebbe prendere a pugni gli uomini in testa, per farli svegliare e rendersi conto che le loro mogli fanno molto di più di loro, soprattutto nell'educazione dei figli". Lo ha detto ieri sera il presidente americano Barack Obama in un'intervista alla Nbc, che sta già infiammando il web. Prova che ha toccato un nervo esposto dolorosamente.

Ma anche la famiglia Obama, ha precisato il presidente, non è estranea a questa disparità di responsabilità che, secondo una recente indagine del settimanale Time, continua a penalizzare anche il mondo delle donne in America.

"Certo, la vita alla Casa Bianca è molto diversa", ha spiegato Obama, "ma alcuni anni fa, quando sia Michelle che io dovevamo destreggiarci tra carriera e figlie, mia moglie ha dovuto fare molti più sacrifici di me". “Michelle si chiedeva perché, se le ragazze si ammalavano, toccava sempre a lei prendersi una pausa dal lavoro per correre a prenderle a scuola. Mai a me".

Ma a differenza di molti uomini che non ha esitato a definire "ottusi", il presidente americano ha confessato di "essere venuto a conoscenza di questa iniquità già da allora". "La verità è che, nonostante l'emancipazione e la carriera, Michelle ha dovuto fare dei sacrifici che io invece non ho dovuto fare".

La consolazione per la first lady oggi è quella di ritrovarsi il braccio destro del marito. "Su tutte le questioni più importanti, siano esse familiari o politiche, il mio primo consigliere è mia moglie Michelle".

Una Barbie con il burka?! E questa prodigiosa invenzione viene dall'Italia? E perché non creano, mentre sono lì, la Barbie oppressa dal padre, umiliata dal fratello e picchiata dal marito? Perché non creano, alla Mattel che oggi litiga con Sotheby's per Save the children, la Barbie sposata suo malgrado a 13 anni a Gaza; o quello che non ha il diritto di guidare un'auto a Riyadh; o quella a cui non è permesso andare a scuola a Kabul, perché le donne “non hanno bisogno di leggere e scrivere”? (ci sono 76 milioni di donne analfabete nel mondo arabo-musulmano). Perché non creano ciò che è concepito e tollerato solo per diventare un accessorio: cucinare, obbedire, tacere e concepire, quando è il suo turno, preferibilmente figli maschi? Perché non creano quella lapidata per adulterio (dal marito sposato con altre 3 donne), e quella imprigionata perché ha osato indossare un jeans? Sono sicuro che quest'ultimo avrebbe un grande successo.

Ci dicono, per rassicurarci, che l'obiettivo era quello di rappresentare "i diversi tipi e culture delle donne". Così hanno messo la nuova Barbie con il burka accanto a quella con il kimono, quella con l'abito e quella con il sari indiano: le sue "sorelle". Così facendo hanno banalizzato l'umiliante carica del burka e l'hanno trasformato in una scelta di abbigliamento “etnico”, invece della rappresentazione concreta del concetto di donna-oggetto, privata di libertà, dignità e diritti umani minimi. Per quanto ne so, la donna giapponese e la donna indiana non stanno vivendo le atrocità che subisce la donna in burka. Né li accetterebbero, forse. Barbie ha già fatto tanti danni, promuovendo l'immagine della donna bambola formosa, che passa il tempo a preoccuparsi di vestiti e orecchini da abbinare; e sognare il muscoloso Ken.

Quella Barbie ha sicuramente qualcosa a che fare con le caricature di donne che vediamo oggi sulla televisione italiana. E altrove.

Sarà una provocazione ma mi sembra uno dei simboli di questa cultura femminile perdente, basata sul disprezzo di sé, sull'autoindulgenza e sulla mancanza di ambizione. Con il burka-Barbie la distruzione dell'immagine femminile è completa: dalla donna oggetto di vetrina, alla donna oggetto di sottomissione, il passo è compiuto. Grazie Mattel. Sono sicuro che i guadagni commerciali ne sono valsi la pena. Le ragazze dei paesi del Golfo non aspettavano altro. Anzi no: i loro padri non aspettavano altro.

Questa bambola è un attacco scandaloso e nauseante alla donna. Non ci sono altre parole per descriverlo. E lo dice una donna araba non femminista. Brava la stilista Eliana Lorena: ormai l'immagine della donna araba in Italia, e in Occidente, è completamente rovinata.

Quanto a noi donne arabe che lottiamo per cambiare questi luoghi comuni, andremo... a giocare con la Barbie velata che meritiamo. Spero solo che nella confezione della Barbie con il burka sia compreso un bavaglio. Perché quella donna non tarderà ad urlare. E quello che dirà non piacerà a molti.