Antonella Borrelli, vittima del “delitto del trapano” - Il Secolo XIX

2022-09-02 18:04:03 By : Ms. Tiffany Zhou

Genova - Ci sono due storie da raccontare in questo delitto. Anzi tre. C’è la storia di Antonella Borrelli, prostituta di 42 anni, la vittima. Poi c’è quella di Luigia Borrelli che di Antonella è l’altra metà, quella pulita: infermiera in pensione e madre di due figli di 19 e 22 anni, ignari della sua vera e nuova professione. Infine c’è da raccontare la storia di Ottavio Salis, muratore suicida, vittima del sospetto e proprietario dell’arma del delitto: un trapano. A ben guardare, ce ne sarebbe una quarta di storia da raccontare. Quella dell’assassino. Ma questa è ancora tutta da scrivere e, forse ormai, a dieci anni di distanza dal delitto, non si scriverà più. Ma andiamo con ordine. Torniamo indietro nel tempo al giorno in cui si alza il sipario su uno dei fatti di sangue più efferati, per modalità, e inquietanti, per retroscena, che la storia della cronaca nera genovese ricordi. Torniamo a mercoledì 6 settembre 1995.

| Speciale Nero in Liguria: 40 anni di delitti irrisolti |

Quella mattina Genova si sveglia sotto una fitta coltre di nubi grigie che lasciano cadere una pioggia sottile che bagna l’acciottolato di vico Indoratori facendone rilucere il colore ardesia. Vico Indoratori è un carruggio stretto fra case a quattro e cinque piani, le cui facciate quasi si toccano e i cui tetti cercano la luce guardando verso piazza San Lorenzo e le striature bianche e nere della sua cattedrale. Sono le otto e mezza del mattino di quel 6 settembre piovigginoso quando i carabinieri arrivano in vico Indoratori 64 rosso. A chiamarli è stata Adriana Fravega, un’anziana ex prostituta, proprietaria di quel basso: un monolocale diviso in due da una tenda che prende aria e luce da una finestrella protetta da un’inferriata e dalla porta d’ingresso a vetri davanti alla quale, la notte, si abbassa una saracinesca. E’ sollevando quella saracinesca che i militari alzano il sipario sul delitto. E la scena che si presenta ai loro occhi è di quelle che non si dimenticano.

Il cadavere di una donna giace ai piedi del letto, su un tappetino a fiori, macchiato di sangue. E sangue ce n’è un po’ dappertutto: per terra, sulla tenda, su un piccolo divano e nel lavandino posto accanto al letto. La donna indossa un paio di fuseaux neri ed è nuda dalla cintola in su. Ha i capelli neri tagliati a caschetto che le coprono parte della guancia sinistra, la testa ripiegata sul lato opposto, ferite in tutto il corpo e una punta di trapano piantata nel collo. Si chiama Luigia Borrelli anche se lì attorno tutti la conoscevano con il nome di Antonella. E’ una prostituta. Ai carabinieri il nome lo rivela Adriana Fravega perché nella stanza non c’è traccia di soldi né di documenti. L’assassino, prima di fuggire, ha rovistato nella borsa della vittima e ha portato via il borsellino e le chiavi del basso con le quali ha chiuso dietro di sé la porta con due mandate prima di abbassare la saracinesca e chiuderla con il lucchetto.

| Foto: delitto del trapano, i protagonisti del “giallo” |

Il monolocale misura tre metri per quattro, ha pareti intonacate di bianco ed è illuminato da due faretti con la lampadina rossa. Una tenda di cotone beige divide il “salotto” dalla camera da letto. Nel primo ci sono un frigorifero, un piccolo divano posto davanti a un televisore e un videoregistratore con dentro una cassetta pornografica. La Tv è stata spenta quando il volume era al massimo ed è attaccata alla presa della corrente con una spina tripla: accanto, staccato, c’è il filo elettrico del trapano. Nella camera, vicino al letto, c’è un tavolinetto basso di formica nera con sopra una manciata di caramelle, una vecchia radio, un bicchiere di vetro da osteria e tre bottiglie iniziate: una d’acqua, una d’amaro e una di Martini bianco. E un pacchetto di MS mezzo vuoto. Una marca che, diranno vari testimoni, Antonella non fumava, almeno non abitualmente. I rilievi della scientifica portano alla scoperta di macchie di sangue sul lavandino che non sono riconducibili alla vittima e trovano, sotto le unghie di Antonella, dei frammenti organici, il che fa ipotizzare agli investigatori che la donna si sia difesa e abbia graffiato l’assassino. L’autopsia, affidata dal sostituto procuratore della Repubblica Patrizia Petruzziello al medico legale Enzo Profumo, stabilirà che Luigia Antonella Borrelli è stata uccisa la notte precedente il ritrovamento del cadavere: presumibilmente fra le 21 e le 23 di martedì 5 settembre. L’assassino ha infierito sul corpo della donna con la punta del trapano dopo averla stordita con un colpo alla testa probabilmente sferrato con uno sgabello. Delle dieci ferite inferte con il trapano nessuna è mortale, neppure l’ultima, quella provocata dalla punta rimasta conficcata nel collo. Questo fa ipotizzare al medico legale che la donna sia stata abbandonata agonizzante e che la morte sia sopraggiunta dopo qualche ora e a causa di una ferita vicino al cuore. Ma chi era Luigia Antonella Borrelli?

Luigia Borrelli quando è stata uccisa aveva 42 anni. Era nata a Iglesias, in Sardegna e a Genova si era trasferita agli inizi degli anni Settanta. Abitava in via Monticelli 7, a Marassi, a pochi passi dallo stadio Luigi Ferraris, con i due figli: Roberto, di 22 anni e, stando alle testimonianze dei vicini di casa, nottambulo e sfaccendato; Francesca, che di anni ne ha 19 e che lavora come commessa in centro. Ufficialmente Luigia Borrelli fa l’infermiera a domicilio. Per tutti. Anche per i figli, ai quali ha detto che assiste un’anziana nel centro storico della quale ha lasciato loro il numero di telefono nel caso avessero bisogno urgente di mettersi in contatto con lei. Il numero di telefono è quello di Adriana Fravega ed è lo stesso che Francesca compone la mattina del 6 settembre quando, svegliandosi, è messa in allarme dal fatto che la madre non è rientrata a casa per la notte. Nell’appartamento dell’interno 9 di via Monticelli 7, Luigia Borrelli e i figli sono andati a vivere nel luglio del 1993. Nel febbraio di tre anni prima erano rimasti soli: Mario Arnaldo Andreini, compagno di Luigia Borrelli e padre di Roberto e Francesca era morto, stroncato da un infarto, lasciandoli in un mare di debiti.

Quando si erano conosciuti, Luigia Borrelli faceva l’infermiera all’ospedale San Martino e Mario Arnaldo Andreini aveva appena divorziato dalla moglie sudamericana e lavorava come magazziniere. Vanno a convivere in corso Gastaldi 27 dove nascono i loro due figli. Alla fine degli anni Ottanta, Mario Arnaldo Andreini si tuffa nell’affare che segnerà il suo destino e quello della sua famiglia. Lascia il lavoro da magazziniere e compra un bar a San Martino. Per ristrutturarlo, però, non ha abbastanza soldi e così si rivolge ad “amici di amici” cadendo in balia degli usurai. Quando, nel febbraio del 1990 muore d’infarto, Luigia Borrelli si trova con due figli da mantenere e un debito da onorare che è ormai lievitato a 250 milioni di lire. Nel ’92 viene sfrattata dalla casa di corso Gastaldi e dopo un periodo passato in camere ammobiliate va a vivere in via Monticelli. Pressata dagli usurai, si licenzia da San Martino e inizia la sua nuova vita. Nasce così Antonella, la lucciola di vico Indoratori, 50mila lire di tariffa sette giorni la settimana, dalla mattina alle dieci alle dieci di sera. Per il basso dove si prostituisce paga ad Adriana Fravega un affitto di due milioni al mese. Agli usurai, secondo quanto ricostruiranno gli investigatori, arriva a versare sino a mezzo milione al giorno. La notte, a volte, subaffitta il basso a un travestito per centomila lire.

E’ questo il quadro nel quale per tre anni Luigia e Antonella convivono in una persona sola. Luigia non è particolarmente bella, è una donna minuta, con le forme arrotondate dalla mezza età e il volto incorniciato da un caschetto di capelli neri. Antonella si affida al trucco pesante per rendersi un po’ più appariscente, a magliette scollate, gonne corte a mostrare le cosce o a fuseaux aderenti a modellarle, come quelli che indossava la notte che è stata uccisa. Non era particolarmente bella Antonella, ma aveva un non so che di disilluso nello sguardo e un modo di fare accattivante che, evidentemente, le garantivano una clientela affezionata e, a detta delle colleghe del carruggio, piuttosto numerosa. Tanto che, per segnalare di essere occupata, Antonella era solita lasciare accesa la luce sopra la porta del basso. Tanto che, a volte, si fermava a lavorare sino a tarda notte. In quel caso Antonella affidava a Luigia il compito di telefonare a casa per avvertire i figli che non sarebbe rientrata per cena. La scusa era sempre la stessa: l’anziana signora che accudiva stava poco bene o pretendeva che si fermasse perché finisse qualche lavoro. Così, giorno dopo giorno, Antonella vendeva se stessa per mantenere i figli e pagare gli usurai e Luigia tornava a casa in via Monticelli raccontando delle stramberie della vecchia che le toccava di accudire e magari maledicendo il giorno in cui aveva deciso di licenziarsi dall’ospedale San Martino. Così, mantenendosi in equilibrio sui binari di due vite parallele, sino alla sera di martedì 5 settembre. Sino al momento in cui Antonella ha fatto entrare nel basso di vico Indoratori il suo assassino. L’uomo che con dieci colpi di trapano avrebbe ucciso lei e rivelato al mondo il segreto di Luigia. Vediamo allora che cosa è successo quel martedì 5 settembre.

Il giorno in cui sarebbe stata uccisa, Luigia Borrelli esce di casa intorno alle nove e mezza per farvi ritorno un’ora dopo con la spesa fatta. In casa il figlio Roberto probabilmente sta ancora dormendo. Con lui, racconteranno i vicini agli investigatori, la donna litiga spesso. Il motivo è sempre lo stesso: il ragazzo non vuole saperne di trovarsi un lavoro, dorme sino a tardi e rincasa a notte fonda. Qualcuno racconta che è pure accaduto che picchiasse la madre. In archivio i carabinieri scoprono che è stato fermato per un controllo qualche tempo prima e che era in compagnia di personaggi legati alla malavita. Quanto basta perché Roberto sia interrogato a lungo il giorno della scoperta del delitto. Su di lui, però, non esce fuori nulla e viene rilasciato.

Uscita nuovamente di casa, Luigia Borrelli si ferma al bar all’angolo fra via Bonifacio e piazza Carloforte a pochi passi da casa. Una tappa abituale, racconterà agli investigatori Remo, il titolare del locale. Ogni mattina la donna faceva tappa al bar per bere un caffè prima di andare a lavorare. Solo un pochino prima, normalmente non più tardi delle 10,30. Quella mattina dunque Luigia Borrelli è in leggero ritardo. Non sembra preoccuparsene, però. Si fa dare da Remo delle vecchie brioches da sbriciolare per i piccioni della piazza, compra delle focaccine per il figlio, beve con calma il suo caffè. Di strano quella mattina Remo ricorderà una frase. «Si è lamentata di un dolore al petto – racconterà il barista – io le ho domandato se non poteva restare a casa, non andare a lavorare per una volta e lei mi ha risposto di no. “Nessuno può andarci al posto mio”, mi ha detto». Intorno all’una del pomeriggio Antonella Borrelli viene vista nella pizzeria dove mangia abitualmente in un carruggio adiacente a vico Indoratori e un’ora dopo in un bar di piazza San Matteo in compagnia di un’altra prostituta. Da qui in avanti sulla giornata della donna cala il buio. I carabinieri del nucleo operativo agli ordini del capitano Francesco Caldari iniziano le loro indagini interrogando, oltre ai figli di Luigia Borrelli e Adriana Fravega, le prostitute della zona. Sono loro a fornire la prima pista alle indagini. A quanto pare Antonella aveva un cliente più assiduo e affezionato di altri. Un uomo sui 50-60 anni non molto alto di statura con capelli radi, occhiali e un tic nervoso. A una delle lucciole interrogate è capitato di incontrarlo insieme ad Antonella in un bar di Piazza Caricamento, in faccia all’Acquario, e ricorda che lei glielo aveva presentato come “Sergio, un amico”. Anche il barista di piazza Carloforte parla agli investigatori di un tal Sergio che qualche volta accompagnava Luigia Borrelli al lavoro, in centro, con la sua Fiat 500. La pista sembra promettere buoni sviluppi. Sergio viene rintracciato l’11 settembre dai carabinieri e interrogato. E’ un infermiere che Luigia Borrelli aveva conosciuto quando lavorava a San Martino e con il quale era rimasta in contatto. Fra di loro nulla più che un’amicizia e per il giorno del delitto Sergio ha un alibi di ferro. Quel martedì sera si trovava dalla parte opposta della città. Può fornire i nomi di parecchie persone che lo confermano. Ma c’è un secondo uomo che corrisponde all’identikit fornito dalla lucciole della zona. E c’è qualcosa di più che l’assidua frequentazione del basso e una presunta scenata di gelosia avvenuta pochi giorni prima del delitto. Quell’uomo è il proprietario dell’arma del delitto: il trapano abbandonato dall’assassino nel monolocale di vico Indoratori. A lui i carabinieri risalgono spulciando i nomi di una agendina di Antonella e attraverso un assegno di 500.000 lire che gli è stato versato in pagamento di alcuni lavori che aveva eseguito nel basso. E’ stato lui, ad esempio, a imbiancarne le pareti e a montare i due faretti rossi che lo illuminano. In questo modo nella storia fa la sua comparsa Ottavio Salis.

Salis viene rintracciato sei giorni dopo il delitto. Ha 52 anni, vive in via Monte dei Busi 21, a Teglia sulle alture del Ponente genovese. A Genova vive da cinque anni, da quando vi si è trasferito dalla Sardegna. E’ sposato con Maria Teresa e ha due figli: Giuseppe che lavora come guardia giurata e Patrizia, studentessa universitaria molto legata alla parrocchia di Sant’Anna. Salis fa l’elettricista per una ditta edile ma nel tempo libero fa anche qualche lavoretto per conto suo. Interrogato dai carabinieri, l’uomo cade in una serie di contraddizioni. Sulle prime nega addirittura di essere il proprietario del trapano. Poi spiega di averlo lasciato nel basso parecchi mesi prima con l’intenzione di tornarvi per concludere alcuni lavori. Dice di non aver più avuto contatti con Antonella Borrelli da tempo ma poi, incalzato dagli inquirenti, ammette di averla sentita per telefono il pomeriggio stesso del delitto e per quella sera ha un alibi che vacilla: è stato a casa a vedere un film alla Tv ma non si ricorda che film era, la moglie è andata a letto alle 21 e la figlia può testimoniare di averlo sentito russare intorno alle 23, quando è rientrata a casa. Resta un buco di due ore che, guarda caso, è proprio il lasso di tempo in cui il medico legale ha collocato il momento del delitto. Può, in quel lasso di tempo, aver ucciso Antonella? Lui nega disperatamente, accenna alla malattia alle gambe che gli impedisce quasi di camminare e che, di fatto, negli ultimi tempi, lo ha tenuto lontano dal lavoro e spesso inchiodato al letto. I suoi familiari confermano ma la loro parola non basta. Perché c’è dell’altro. L’uomo ha dei graffi sulle braccia e sul corpo che non sa spiegare e nella sua casa di Teglia, i carabinieri rintracciano e sequestrano alcuni abiti con delle macchie sospette. Il 12 settembre il nome di Ottavio Salis viene iscritto nel registro degli indagati e sugli abiti sequestrati viene disposto l’esame del Dna. E’ il penultimo atto di un’altra tragedia.

Alle cinque del pomeriggio di due giorni dopo, giovedì 14 settembre, il telefono squilla in casa Salis. Sono i carabinieri che convocano l’elettricista a Palazzo di Giustizia per l’indomani mattina alle 10 nell’ufficio del sostituto procuratore della Repubblica Petruzziello. Davanti a Salis si spalanca il baratro della prigione. Un’ora dopo telefona al suo avvocato, Enzo Farolfi. «Era letteralmente terrorizzato di finire in carcere», racconterà qualche giorno dopo il legale, che tenta di tranquillizzarlo e gli dà un appuntamento nel suo studio del centro per quella stessa sera, entro le 18,30. Salis si siede al tavolo di cucina, prende un block notes e si mette a scrivere, poi ripiega i fogli, se li mette in tasca ed esce. Alla stazione della metropolitana incontra la figlia Patrizia che saluta senza fare cenno alla telefonata dei carabinieri né all’appuntamento con l’avvocato. Intorno alle otto di sera alcuni automobilisti lo vedono camminare a piedi sulla sopraelevata e avvisano i vigili urbani. All’altezza dell’elicoidale, proprio davanti alla Lanterna, si ferma accanto al guardrail, lo scavalca e si lascia cadere di sotto. Viene soccorso pochi minuti dopo. E’ ancora in vita e viene trasportato all’ospedale San Martino dove, però, cessa di vivere un paio d’ore dopo. In tasca ha cinque biglietti vergati con la calligrafia incerta di chi non è abituato a tenere una penna in mano. Uno è indirizzato ai suoi familiari: “Baci a tutti, a te Patrizia studia e prendi la laurea. A te Giuseppe sii sempre bravo come sei sempre stato. Teresa, resta sempre vicina ai nostri bambini. Ora vi abbraccio tutti. Ottavio”. Il secondo è rivolto alla moglie e ha delle parti incomprensibili: “Teresa perdonami per tutto il male che ti ho fatto. Non sapevo che tu eri... Resta sempre brava come sei. Ti abbraccio. Ottavio”. Il terzo è diretto al maresciallo che per primo lo ha interrogato. “Maresciallo Piu, fai che la mia morte non sia stata vana. Cerca l’assassino di Antonella. Io sono innocente. So che lo troverete”. Il quarto è per l’avvocato: “A lei avvocato. La ringrazio, ma non ce la faccio ad andare in galera innocente”. Nel quinto si legge “Saluto tutti gli amici, sappiate che non ho fatto niente di male”. Il testamento sconvolgente di un uomo schiacciato dal sospetto e dal terrore di finire in carcere e di coprire di vergogna la propria famiglia. Cinque lettere di addio alla vita che colpiscono profondamente l’opinione pubblica e gli stessi investigatori. Un’estrema e terribile professione di innocenza che troverà conferma otto giorni dopo. Il 22 settembre i risultati del Dna scagionano ufficialmente Salis da ogni sospetto. Gli esami eseguiti dai professor Francesco De Stefano e Armando Mannucci stabiliranno che c’è una possibilità su un milione e 226.000 che il sangue trovato sul lavandino del basso di vico Indoratori sia dell’elettricista suicida mentre sugli abiti sequestrati non c’è alcuna traccia del sangue della vittima. Né qualche aiuto viene dai frammenti di pelle rilevati dalla scientifica sotto le unghie di Antonella: troppo piccoli per poter risalire al Dna dell’assassino.

Ma allora, chi ha ucciso Luigia Antonella Borrelli? Le piste seguite dagli investigatori si diramano in più direzioni ma ovunque sembrano giungere a vicoli ciechi. Si setaccia il mondo della prostituzione, specie quella controllata dalla malavita extracomunitaria. Antonella, con il suo giro di clienti, poteva aver dato fastidio a qualcuno? Si batte la pista della droga. A quanto pare Antonella avrebbe fatto uso saltuario di cocaina. Potrebbe essere stata uccisa per un debito contratto in quel mondo? Certo nessuna delle due ipotesi si può escludere a priori, ma entrambe sembrano poco verosimili. Di fatto la pista più probabile, quella seguita con più determinazione dagli inquirenti, è quella che conduce nel mondo dell’usura. Quel mondo che aveva costretto Luigia, infermiera e madre, a trasformarsi in Antonella, lucciola del centro storico. E si fa largo l’ipotesi che quanto accaduto in vico Indoratori sia il macabro frutto di una spedizione punitiva di killer professionisti. E’ questa per esempio la tesi del commissario Silvio Bozzi della polizia scientifica di Bologna che del caso si occupa nell’aprile del ’99 nell’ambito della trasmissione “Blu notte” dello scrittore Carlo Lucarelli. L’analisi di alcune ecchimosi e di altri segni sul corpo della vittima, degli spazi e dei possibili movimenti degli assassini negli spazi angusti del basso, porterebbero alla presenza di due persone. Due professionisti che hanno agito con fredda determinazione, andando magari oltre il compito di dare una lezione alla vittima per indurla a continuare a pagare gli strozzini. Una volta resisi conto di aver ucciso la donna avrebbero inscenato a bella apposta un delitto a sfondo sessuale, utilizzando il trapano abbandonato da Salis sotto il letto della vittima. Di certo c’è che, uno o due che fossero, si sono lavati accuratamente, hanno frugato nella borsa della vittima rubando il portafogli con soldi e documenti, prendendo le chiavi e il lucchetto con cui chiudere la porta e la saracinesca del basso e portando via persino il sacchetto dell’immondizia dove probabilmente hanno gettato i documenti di Antonella.

Ipotesi, solo ipotesi. E un nuovo inquietante mistero. Legato a un’altra morte. Quella di Adriana Fravega, la proprietaria del basso dove Antonella si prostituiva. Il 25 marzo del 1996, poco più di sei mesi dopo il delitto, la cinquantaseienne ex prostituta viene trovata morta in casa sua, in piazzetta Tavarone a pochi passi da vico Indoratori. Ha ingoiato una confezioni di barbiturici. Si è suicidata perché caduta in una profonda depressione, come testimonia la sorella con la quale ha passato le ultime ore di vita, o è stata eliminata perché sapeva qualcosa che non doveva in merito alla fine di Antonella?

Nell’agosto del 2004 l’ultimo colpo di scena. Una lettera arriva in procura indirizzata al sostituto procuratore Patrizia Petruzziello: “Sono io il mostro del trapano. Anni fa ho compiuto un omicidio, non sono mai stato preso. Ho paura di finire per sempre in galera, la mia vita sta cambiando”, esordisce. Gli inquirenti la ritengono attendibile. A quanto pare rivela particolari che solo l’assassino può conoscere. Sul francobollo non c’è traccia di saliva. E nessuna traccia del killer o dei killer di Antonella è mai più venuta fuori, almeno sino ad ora.

Accesso illimitato a tutti i contenuti del sito

1€/mese per 3 mesi, poi 3,99€/mese per 3 mesi

Sblocca l’accesso illimitato a tutti i contenuti del sito

Via Ernesto Lugaro n. 15 - 00126 Torino - P.I. 01578251009 - Società soggetta all'attività di direzione e coordinamento di GEDI Gruppo Editoriale S.p.A.

I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l'adattamento totale o parziale.