Il grande mistero degli Yes, i virtuosi del rock progressivo - La Stampa

2021-10-22 09:32:54 By : Ms. Rainbow Wu

Hanno scritto canzoni di estrema complessità e hanno scalato le classifiche di tutto il mondo: ecco la storia della band inglese e i segreti del loro album omonimo, raccontati canzone per canzone

Sì in concerto a Indianapolis, 1977. Da sinistra: Steve Howe, Alan White, Jon Anderson, Chris Squire e Rick Wakeman (da Wikipedia)

In un certo senso, gli Sì sono un grande mistero. A pensarci con gli occhi di oggi, non è chiaro come un gruppo che ha saputo sfornare brani di estrema complessità come loro abbia finito per sfondare le classifiche di tutto il mondo, soprattutto quelle americane, storicamente orientate al mainstream. Eppure il quintetto inglese ce l'ha fatta, è riuscito a realizzare il sogno di chi concepisce la musica non solo come mezzo per diventare ricco e famoso ma come espressione della propria creatività, veicolo di sensazioni ed emozioni. E sì hanno comunicato emozioni eccome, ma lo hanno sempre fatto a modo loro, fatto di grandi virtuosismi e canzoni che spesso sono veri e propri enigmi. 

Qualcuno ha detto che le canzoni degli Yes sono continue esplosioni da solista che, incastrate insieme, formano le canzoni. Incredibile e totalmente originale a pensarci. A parte loro, mi vengono in mente i Gentle Giants, altri maestri del puzzle sonoro, ma fare cose del genere e farle con successo non è da tutti. Ed è ancora più folle pensare che una band del genere abbia subito ottenuto un contratto con una delle case discografiche più potenti al mondo: la Atlantic Records. 

Dopotutto, hanno tutte le capacità commerciali sulla carta. Sono cinque giovani che uniscono le forze dopo che gli ex membri di due gruppi pop psichedelici inglesi della seconda metà degli anni '60 (Warriors e Syn) hanno deciso di iniziare una nuova avventura creativa. Questi sono il bassista Chris Squire e il cantante Jon Anderson. 

La band che Chris e Jon hanno messo insieme si chiama Mabel Greer's Toyshop, e comprende altre tre star: il primo è il batterista Bill Bruford, ha solo 19 anni e uno che mescola rock e jazz come se mangiasse noccioline. A dire il vero, la musica afroamericana è il suo grande amore, ma siccome questi erano gli anni del rock suo malgrado, ha dovuto prendere la tecnica e metterla al servizio della musica giovanile più squadrata. Il risultato sarà una scuola: un suono secco, definito, aggraziato e potente allo stesso tempo, con Bill che sembra ballare tra i tamburi mentre sorridendo si infila uno strano tempo dopo l'altro. Gli altri due sono il tastierista Tony Kaye, innamorato del suo organo Hammond che suona con classe di sangue, e il chitarrista Peter Banks, forse il meno dotato tecnicamente che colma le lacune con l'inventiva. 

È Banks a inventare un nuovo nome per la band: Toyshop di Mabel Greer è decisamente troppo lungo e difficile da memorizzare. Basta una parola, che si stampa subito nella testa dei giovani ascoltatori. Anderson opta per Life, Squire preferisce World. Banks è invece convinta che Sì sia la parola giusta. Siamo nel 1968, questi sono tempi floreali, pace, amore e musica è lo slogan infuriato, una parola come Sì è dotata di slancio e ottimismo, perfetta per i tempi. 

Sì, la musica per bambini è fresca, con questo basso in evidenza e la voce di Jon Anderson che spicca. Sembra un falsetto ma non lo è, è sottile, molto diverso dalle ruvide ugole blues-like, Anderson sembra caduto sulla terra da una fiaba del suo quasi omonimo Hans Christian Andersen, non è un caso che nel passato il cantante ha provato la carta solista con un paio di singoli sotto lo pseudonimo di Hans Christian Anderson. 

Alla band sono subito piaciute le case discografiche e non è difficile firmare un contratto con la già citata potente Atlantic. 

Il biennio 1969-70 passa tra un'infinità di concerti e la registrazione dei primi due album della formazione, Yes e Time and a world. Sono lavori pieni di momenti interessanti ma anche di molta ingenuità. Sì, non è ancora molto chiaro dove sia diretta la loro musica, c'è pop, rock, psichedelia, tentativi con la musica classica, l'uso di un'orchestra, alcune cover (Beatles, Stephen Stills, Richie Havens...). Sulle canzoni degli altri la band sembra poi particolarmente ispirata. Le canzoni sono spesso distorte, reinventate, fatte proprie. Che i cinque abbiano le carte in regola non è in dubbio, ma manca ancora una direzione seria.

Nel frattempo, il fenomeno del prog rock è lì per esplodere (all'epoca, però, nessuno lo chiama così, si preferiscono nomi come rock barocco o rock sinfonico), con i King Crimson che aprono la sfilata trionfale con il classico In the court del Re Cremisi. Il rock sta davvero per subire un grande cambiamento, la canzone pop classica è abolita e le strutture larghe che si guardano, i cambi di tempo e di umore che convivono armoniosamente in brani spesso lunghi e frastagliati, vere suite come nella musica classica. I testi diventano allora fantasiosi, descrittivi, spesso fiabeschi, una favola che è sempre metafora di temi sociali, che assume il compito di evidenziare un certo disagio giovanile, che non lesina sull'evocazione di paesaggi acidi legati all'uso di sostanze allucinogene, quale mette in scena tutta la paura del futuro che in quel periodo sta prendendo il posto dell'ottimismo del flower power.

Con una capacità strumentale come la loro, gli Yes sono i primi a buttarsi a capofitto nel nuovo movimento. Occorre però lavorare sull'aspetto compositivo, per offrire un nuovo album che faccia un salto di qualità, anche in termini di vendite. Atlantic, infatti, non è per niente contenta di come si sono mossi i due dischi precedenti ed è pronta a dare al gruppo solo un'altra possibilità: o tirare fuori un disco di successo o uscirne.

A smuovere ulteriormente le acque è il malcontento del chitarrista Peter Banks. Non era per niente contento dell'inserimento dell'orchestra in Time e di una parola così come del poco spazio che la band sta dando sempre di più al suo strumento. La mentalità di Peter è più legata al rock, gli altri iniziano invece a pensare al gruppo come una vera e propria orchestra in cui la chitarra è solo uno dei tanti pezzi che formano l'ensemble, non la protagonista assoluta come accade nel rock "classico". che in quei tempi sembra essere qualcosa di antiquato.

Così Pietro abbandona il Sì che non si scoraggiano, sono troppo convinti della validità della loro proposta e sono dotati della giusta ambizione che li spinge ad andare avanti nonostante le avversità. Poco dopo hanno preso un nuovo chitarrista, il suo nome è Steve Howe e ha suonato con due band: Bodast e Tomorrow, questi ultimi autori di uno dei capisaldi della psichedelia inglese, l'album omonimo, uscito nel 1968 e guidato dal colpisci La mia bicicletta bianca.

Howe è un po' come la versione per chitarra di Bruford. Anche lui tiene il piede in due scarpe: rock e jazz, i suoi due grandi amori. Ma non solo, Steve non è il classico guitar-hero ma un musicista con cultura e sensibilità che mastica perfettamente bluegrass, flamenco, ragtime e mille altri stili. Possiede strumenti a corda provenienti da tutto il mondo e di solito suona dal vivo una chitarra semiacustica Gibson es 175, cosa molto rara a quei tempi, con un suono semi-distorto che si adatta perfettamente alla nuova musica che la band sta componendo. È tanto capace di costruire delicati arabeschi acustici quanto è capace di lanciarsi a perdifiato per macinare nota su nota. 

Con la formazione finalmente compatta, il nostro team si lancia nella registrazione del fatidico terzo album, quello di “o la va o la splits”. Per comporlo si isolano in un cottage a Churchill, a nord di Barnstaple, dove però sono costretti a interrompere il lavoro dopo il tramonto per non disturbare il quartiere. Preparati e imballati, si trasferiscono a Langley Farm a Romansleigh, un luogo isolato e immerso nella pace. Qui è nato il nuovo album, in cui gli Yes ora si sentono liberi di osare. È paradossale, se ci pensi, la casa discografica vuole che abbiano successo, ma invece di collezionare singoli di successo, la band si propone di tirare fuori il materiale più avventuroso fino a quel momento. Questo perché hanno capito che il pubblico non sa cosa fare con i single di successo, è alla musica che non teme recinzioni che guarda, che fa viaggiare e sognare, che è simbolo di libertà. Sì arrivano al momento giusto, nel loro futuro ci saranno singoli di successo, ma adesso è un messaggio di totale emancipazione musicale che va comunicato. 

Ne escono sei opere d'arte, brani inediti che ogni tanto recuperano idee precedenti e che per il resto si lanciano completamente nel futuro. Eccoli:

La tua non è una vergogna Il testo, scritto da Anderson insieme all'amico David Foster, mette in gioco la tendenza del cantante a costruire testi che non hanno una spiegazione univoca ma servono più ad evocare, anche grazie a parole unite per pura sonorità. Molti criticheranno questa scelta ma fa indubbiamente parte del fascino, anche enigmatico, di Sì. Per il resto la canzone mette tutti in riga: il prog ha una nuova star che si chiama Yes. Tecnica e creatività al servizio di una musica che cattura immediatamente ogni parte nonostante la complessità, con temi, momenti solistici, cori, grandi esplosioni, deliri di chitarra su tempi frenetici e tutta la migliore nuova musica d'importazione.

I Clap Yes concedono subito una parentesi al nuovo membro Steve Howe, un pezzo per chitarra acustica con richiami classici, folk e jazz registrato dal vivo al Lyceum Theatre di Londra il 17 luglio 1970 e dedicato alla nascita del figlio Dylan, che ebbe luogo il 4 agosto 1969. Clap (erroneamente introdotto da Jon Anderson come The Clap e così intitolato nelle stampe originali dell'album) è influenzato dallo stile di Chet Atkins e dal brano Classical Gas del chitarrista classico Mason Williams. 

Starship trooper Caposaldo della produzione degli Yes, questa mini suite in 3 sezioni è inaugurata da una chitarra passata attraverso un effetto flanger e poi da tagli ritmici intervallati da momenti più ariosi in cui la voce fatata di Anderson declama immagini estatiche. La sezione centrale, Disillusion (rielaborazione di una canzone di Chris Squire intitolata For Everyone), è un tripudio di cori CSN, mentre quella finale, Würm, si basa su una serie di accordi in crescendo che prendono spunto da una canzone (Nether Street) dei Bodast, l'ex gruppo di Howe. Würm è il nome di un fiume tedesco nonché l'appellativo dato all'ultima era glaciale. 

Ho visto tutte brave persone Un'altra mini suite in 2 movimenti, il primo acustico, il secondo elettrico. La prima sezione inizia con calma e si sviluppa tra chitarre acustiche (portoghesi e 12 corde), flauto dolce (suonato dall'ospite di Gnidrolog Colin Goldring) e cori. Tutto va avanti fino a quando non conduce a un'apertura segnata da un organo da chiesa, con alcune citazioni da Instant Karma e Give peace a chance di John Lennon. Il tutto prima di passare al secondo movimento veloce e scattante, che diventerà uno dei momenti più giocosi durante i concerti.

Un'avventura Momento più leggero e più breve con vene folk-jazz scritto da Anderson e mai eseguito dal vivo fino al 2013. In origine avrebbe dovuto contenere un assolo di chitarra lasciato fuori dal mix finale.

Perpetuo cambiamento Jon scrive il testo della mini suite finale prendendo spunto dalla campagna del cottage di Churchill. Perpetual Change è un altro tour de force che anticipa le strutture sempre più ardite degli album a venire, con movimenti disparati, strutture poliritmiche, oasi jazz e coriandoli sparsi della più intensa inventiva. Una vera festa per orecchie e cuori.

Terminata la composizione e le registrazioni, il disco viene presentato alla casa discografica. Da chi è più aperto alle nuove tendenze non c'è dubbio: questa volta gli Yes hanno centrato l'obiettivo. Altri, invece, pensano che la musica sia bizzarra, lontana dalla commercializzazione e dalle vendite che contano, temono il peggio. Nel frattempo, siamo impegnati a montare la copertina, lontani dalle future meraviglie firmate Roger Dean. Per ora ci accontentiamo di un'immagine della band in una foto di Phil Franks. Porta gli Sì nel suo appartamento, prende una testa di manichino di polistirolo da un bidone della spazzatura, mette una lampadina da 1000 watt nella sua cucina e improvvisa lo scatto. Semplice ma d'effetto, con un'ulteriore particolarità: il tastierista Tony Kaye ha un piede nel cast. Il giorno prima della sessione fotografica (23 novembre 1970) il gruppo è coinvolto in un incidente stradale mentre tornava da un concerto alla Plymouth Guildhall. Quattro di loro se la cavano con uno shock, Kaye invece si rompe un piede.

Franks scatta anche altre foto da un concerto al Lyceum di Londra che verranno inserite all'interno della copertina. Kaye si distinguerà ancora, occupando tutto lo spazio mentre suona il suo Hammond, mentre i piccoli quadrati sono riservati al resto dei musicisti. La cosa paradossale è che molto spazio sarà dedicato al componente che presto abbandonerà il transatlantico Sì. Tony è infatti troppo legato al suo strumento preferito per stare al passo con sintetizzatori e altri macchinari tecnologici che fanno sempre più la loro comparsa. La band, invece, vuole sperimentare, allargare la tavolozza dei suoni per essere sempre più all'avanguardia. Il suo sostituto non tarderà ad arrivare: un uomo alto e snello con lunghi capelli biondi che presto verrà additato come un vero mago della tastiera: Rick Wakeman.

Intanto il nuovo album si chiama The Yes album, quasi a sottolinearne la forza esplosiva, come a dire "Eccoci qua, questo è il nostro meglio!". D'altra parte l'album degli Yes mette in risalto il suo carattere ottimista, l'album affermativo, l'album degli yes.

E le classifiche diranno di sì, dando ragione al coraggio della band: l'album Yes vende circa 60.000 copie al momento dell'uscita nel Regno Unito. Ma il super botto lo farà negli USA dove diventerà disco di platino grazie a oltre un milione di copie. Un miracolo per una band che suona musica del genere e che da quel momento in poi sarà inarrestabile, sotto ogni punto di vista.

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