Futuro Presente | Carla Liesching e il ruolo dell’arte nello smantellamento dell’eredità coloniale

2022-09-30 17:59:58 By : Ms. Yanqin Zeng

La nuova generazione di fotografi e artisti visivi guarda alla contemporaneità e ai suoi temi più critici con una consapevolezza e un desiderio di sperimentazione inediti. Questa rubrica vuole dar voce ai giovani talenti che rappresentano il futuro della fotografia; un futuro che è, forse, già presente. Sono infatti più urgenti che mai le tematiche affrontate dal lavoro di questi artisti visivi: dal cambiamento climatico alla decolonizzazione dello sguardo, dall'utilizzo degli archivi storici alla rilettura delle classiche pratiche di documentazione fotografica. Nata a Cape Town nel 1985, Carla Liesching è un’artista interdisciplinare, fotografa, ed educatrice il cui lavoro vuole portare alla luce e mettere in discussione il lascito socioculturale del colonialismo. Sperimentando con diversi mezzi artistici, la creativa sudafricana attiva a livello educativo presso la Cornell University, l’Ithaca College, e l’International Centre of Photography, indaga la rappresentazione mediatica del continente africano per denunciare come la cultura mainstream continui a perpetrare narrazioni di stampo imperialista. Partendo dalla presa di coscienza della propria condizione privilegiata in quanto bianca, Liesching si fa così protagonista di un’indagine artistica che la vede rielaborare materiali d’archivio appartenenti all’epoca contemporanea per dimostrare come, anche a distanza di 28 anni dalla fine dell’apartheid, la violenza razziale sopravviva all’interno di libri, giornali, e pubblicità sotto forma di archetipi permeati dalla medesima ideologia coloniale. Liesching è una degli artisti visivi selezionati da Foam Talent 2022, un’open call annuale che supporta i talenti della fotografia contemporanea attraverso la pubblicazione di un magazine dedicato e una mostra presso il museo Foam di Amsterdam. La collettiva «Foam Talent 2022» è ora in corso e durerà fino al 18 gennaio 2023. In questa intervista Liesching ci racconta di più sui suoi progetti. Carla Liesching Per coloro che vengono a contatto con il suo lavoro per la prima volta attraverso questa intervista, potrebbe parlarci del suo percorso artistico e professionale? Nata a Cape Town, sono cresciuta nelle zone rurali dell’Eastern Cape per poi spostarmi a Johannesburg dove, a poco più di vent’anni, ho iniziato a insegnare al Market Photo Workshop. Nel 2012 mi sono trasferita a New York e ora trascorro il mio tempo tra il Sudafrica e gli Stati Uniti, due luoghi e culture che fungono da pilastri per il mio lavoro e la mia ricerca. Attualmente insegno fotografia alla Cornell University, «Theories in Contemporary Practice» presso l’Ithaca College, e vari corsi indirizzati ad adolescenti e giovani adulti all’interno del Dipartimento Programmi Comunitari dell’International Centre of Photography (ICP). L'insegnamento è un aspetto chiave nella mia pratica: come i miei progetti, vuole incoraggiare conversazioni capaci di facilitare il processo verso un cambiamento sociale significativo. Quando è stata la prima volta che ha sentito il bisogno di esprimersi artisticamente? Da dove è scaturita questa sua urgenza? Stando a mia madre, già a due anni ero assolutamente convinta di voler vivere la mia vita da artista. Ho sempre avuto un desiderio immenso di esprimermi ed entrare in contatto con gli altri attraverso collaborazioni creative. Uno dei miei giochi preferiti era mettere i miei orsacchiotti in cerchio e condividere con loro ciò che avevo imparato, elaborando così una conversazione immaginaria. Personalmente, sono cresciuta in un clima sociopolitico che mi costringe a vedere il mio lavoro, e la mia vita in generale, come inestricabilmente interconnessi con una rete di realtà politiche, storie coloniali, e ideologie violente che si ripercuotono dannosamente sul presente. Il mio bisogno di esprimermi artisticamente è strettamente connesso al bisogno di attività collettiva. Questo nasce dalla necessità di avere conversazioni oneste e di costruire comunità fondate sul concetto di cura e resistenza. Penso che da qui derivi anche il mio amore per la produzione di libri e gli aspetti comunitari del mondo dell’editoria: come ha affermato l’artista Dayanita Singh: «Un libro è una conversazione con uno sconosciuto nel futuro». Che tipo di ricerca è alla base dei suoi progetti? Potrebbe fornirci esempi di piattaforme multimediali, archivi storici, e altri materiali da lei utilizzati nella concettualizzazione di un nuovo corpo di opere? Il mio processo artistico quotidiano è piuttosto improvvisato: non sento di avere bisogno di una routine troppo rigida e spesso mi trovo a saltare tra più progetti o lavori nello stesso giorno. Quello che ritengo utile però, soprattutto durante le fasi iniziali di un nuovo progetto, e ancor di più per il mio processo di scrittura, è svegliarmi e andare direttamente nel mio studio con il mio caffè mattutino, risvegliandomi pian piano nello scrivere. È un modo perfetto per far sì che il tuo intuito ti guidi, quando sei ancora in quello stato fluido e onirico del dormiveglia. Questo processo spesso porta a un’intera giornata di scrittura, anche se in genere tendo a esaurire le parole nel corso della stessa giornata, gravitando maggiormente verso il lavoro di collage, la lettura, e la ricerca col sopraggiungere della sera. Le raccolte di immagini digitali sono parte integrante della mia ricerca: tendo a lavorare in risposta ad archivi pubblici, come la New York Public Library Picture Collection, lo Smithsonian, la Library of Congress, o collezioni private più piccole, come la Martin and Osa Johnson Safari Museum Collection. È importante sottolineare che attingo da giornali e riviste che ho raccolto personalmente, tra cui una vasta collezione di numeri di South African Panorama: una pubblicazione sovvenzionata dal governo dell’apartheid con l’idea di vendere un mondo benevolo di controllo e dominio bianco. Le pagine ricavate da queste fonti diventano quindi artefatti visivi, servendo da punto di partenza per il lavoro di scrittura e per i miei collages intrisi di narrazioni storicamente razzializzate. Attraverso il mio lavoro, mi chiedo come la presenza persistente di queste narrazioni nella cultura visiva contemporanea metta in atto una sorta di violenza, rispondendo alle domande poste da Joanna Ruth Evans: «Quando gli studenti [sudafricani] di questa generazione dicono che stanno ancora vivendo sotto l’apartheid, cosa porta la gente a credere che questa affermazione sia semplicemente una metafora? Quali logiche rappresentative rendono l’apartheid un evento strettamente appartenente al passato? E cosa ci vuole per sconvolgere queste logiche?». Una fotografia della serie «Good Hope» (2019) di Carla Liesching. Cortesia dell’artista e MACK books. Prendendo a prestito il suo titolo dalla località sudafricana nota come Capo di Buona Speranza, la quale occupa una posizione storicamente strategica nel cuore della «Via delle Spezie», e oggi epicentro di movimenti di resistenza anticoloniali, il suo progetto «Good Hope» (2019) è una vasta raccolta di materiali visivi e testuali che esplorano la storia del Sudafrica con un focus sul lascito culturale e sociologico dell’apartheid. Come è nata l’idea per questo suo libro? Avevo nove anni quando il regime dell’apartheid finì. La mia adolescenza fu il «decennio del cambiamento»: decennio che vide la nascita di quella che il defunto arcivescovo Desmond Tutu chiamò la «Nazione arcobaleno». In questo contesto di profonde divisioni razziali, iniquità, e tentativi di riconciliazione, sono sempre stata acutamente consapevole sia della mia bianchezza che della mia eredità di colone complice. Quando mi sono trasferita negli Stati Uniti, mi sono resa conto che i bianchi americani sembravano considerarsi «senza razza»: pensavano alla razza come a qualcosa che si riferiva ad «altro» (alla gente dalla carnagione nera e marrone), ma non a loro stessi. Al contempo, ho notato la sensibilità e l’insensibilità (o l’oblio) riguardo al concetto di razza, anche all’interno dei cosiddetti ambienti accademici «progressisti». Negli Stati Uniti mi sono trovata di fronte a una versione di Whiteness diversa rispetto a quella di casa, e questo vedere come la concezione di razza differisse da un luogo all’altro mi ha resa ancora più consapevole della sua natura costruita, inventata, e socializzata. «Good Hope» (2019) è iniziato in modo ampio e astratto come un’indagine visiva sull’immaginario dell’impero e ciò che Claudia Rankine chiama «bloc Whiteness»: una fonte di potere indiscusso che si sente in pericolo pur mantenendo la sua presa di potere. Fin da subito, capii però che esaminare e mettere in discussione la Whiteness avrebbe richiesto che io lavorassi da una prospettiva profondamente personale, riconoscendo la mia eredità del privilegio dei coloni bianchi, ottenuto oggi come allora attraverso la forza bruta e la violenza razziale. Così iniziò un processo di scrittura attraverso cui ho scavato nel passato personale e nel presente politico della mia vita e del luogo che chiamo casa, il Capo di Buona Speranza. Ha aiutato il fatto che questa località fosse, come dice lei, una posizione strategica nel processo di espansione coloniale e imperiale. In «Good Hope» (2019), la utilizzo a mia volta strategicamente come asse geografico attorno al quale procedere con occhio attento e critico. All’interno di questo progetto c’è anche uno sviluppo di tipo temporale in cui io viaggio, in quanto narratrice, tra aree geografiche e fusi orari differenti, intraprendendo anche viaggi immaginari in diversi momenti della storia. Questo aspetto dell’opera dà vita a un gioco di passati e presenze molteplici; ad una pluralità di voci e narrazioni che emergono all’unisono, sfidando l’idea coloniale della storia, la quale è, tipicamente, una narrazione lineare raccontata da un’unica prospettiva. «Good Hope» è un esempio tangibile di come la narrazione visiva possa essere utilizzata per mettere in discussione prospettive storiche precedentemente accettate, richiamando l’attenzione sulla loro imprecisione e sui loro bias intrinseci. Essendo lei stessa cresciuta nel Sudafrica dell’apartheid, che tipo di significato ha questo progetto per lei? Cosa vorrebbe che le persone ne ricavassero? Questo lavoro è inteso come un contributo o un’offerta, per quanto piccola, a una conversazione molto più ampia su come demitizzare e «disimparare» la supremazia bianca. Sebbene questa porzione di storia sia radicata in Sudafrica, ha al contempo una portata globale. Lo stesso accade con il colonialismo, il capitalismo predatorio, e la supremazia bianca: tutti fenomeni che hanno, in un modo o nell’altro, «conquistato» il mondo intero. Il progetto è una conversazione con molti scrittori, studiosi, e attivisti coinvolti nella lotta per la liberazione da ciò che Achille Mbembe chiama «il nostro intrappolamento collettivo nelle mitologie bianche». Spero quindi che possa invitare anche il lettore a partecipare a questo dialogo. Una fotografia della serie «Good Hope» (2019) di Carla Liesching. Cortesia dell’artista e MACK books. In precedenza lei ha lavorato a un’analisi approfondita dei contenuti media, film, riviste internazionali, pubblicità, o giochi da tavolo, per mostrare come il colonialismo sia ancora radicato nella cultura di tutti i giorni. Come possiamo smantellare tali idee? Credo che la cultura visiva popolare sia estremamente influente nel plasmare il modo in cui pensiamo a noi stessi e agli altri nel mondo, così come è efficace nel determinare ciò che crediamo essere vero. C’è una ragione per cui le amministrazioni coloniali sono state così rapide nel prendere le immagini fotografiche come uno strumento o, come molti studiosi sosterrebbero, come un’arma all’interno di una prassi del potere coloniale. C’è molto da imparare dall’esame dei modi in cui le immagini vengono utilizzate al servizio del potere, storicamente e attualmente. Attraverso il mio lavoro mi domando che cosa potrebbe accadere se i bianchi diventassero tutti più consapevoli, se tutti iniziassero a partecipare più attivamente alle pratiche liberatorie volte a riconoscere, ad analizzare, e disimparare le lezioni dell’oppressore. Credo che un’ondata di coscienza tale sarebbe abbastanza per scampare l’ennesima catastrofe. Penso però che il disimparare sia un processo necessariamente personale, caratterizzato da aspetti differenti per ciascuno di noi. Questo può manifestarsi in diverse iniziative, dal piantare un orto all’organizzazione di un movimento come Rhodes Must Fall o Black Lives Matter, fino al creare consapevolezza attraverso un approccio artistico o pedagogico. Ci sono molti ruoli nella lotta allo smantellamento del colonialismo odierno, tutti ugualmente necessari. I temi affrontati dalla sua produzione artistica sono argomenti che tratta ampiamente anche a livello educativo grazie alla sua cattedra presso l’Ithaca College, l’ICP, e la Cornell University. Cosa può dirci dello stato dell’istruzione odierna per quanto riguarda la decolonizzazione del curriculum di storia dell’arte? Inizierò dicendo che, soprattutto a partire dall’estate del 2020, quando le persone sono scese in piazza durante la pandemia al grido di Black Lives Matter, sto notando un maggiore interesse e impegno nell’affrontare la questione della diversità, sia da parte dei singoli docenti che all’interno di interi corpi studenteschi. Sono fiduciosa che questo possa portare a finanziamenti adeguati indirizzati al sostegno delle donne, della comunità BIPOC, e degli studenti e docenti che fanno parte della maggioranza mondiale oppressa. Nonostante questa maggiore consapevolezza, penso che ci sia ancora molto lavoro da fare. Bisogna che le università, le istituzioni, e i musei assumano studiosi, artisti, curatori, ed educatori specializzati in pratiche decoloniali. La struttura dei singoli moduli educativi e quella dei programmi di studio nella loro interezza dovrebbero avere al centro la volontà di mettere in discussione il canone europeo. Ad oggi, non penso che il curriculum di storia dell’arte sia sufficientemente «decolonizzato». Mi auguro però che emerga una nuova generazione di pensatori capace di promuovere conoscenze che non si basino sull’impulso di ordinare e dividere, ma piuttosto sulla ricerca di nuovi modi per connettere e creare coalizioni e pratiche comuni tra discipline e comunità distanti tra loro. Una fotografia della serie «Good Hope» (2019) di Carla Liesching. Cortesia dell’artista e MACK books. Oltre ad essere uno dei talenti fotografici selezionati quest’anno dal Foam di Amsterdam, è anche tra i beneficiari del Light Work Grant 2021, nonché vincitrice del concorso Open Walls Arles indetto dal British Journal of Photography. Come si sente riguardo a questi riconoscimenti transcontinentali e che cosa significano per lei e per lo sviluppo della sua pratica artistica? Come ha intenzione di espandere il suo lavoro negli anni a venire? La ringrazio per questa domanda. Ciascuno di questi riconoscimenti significa molto per me, in quanto lavoro molto duramente per rendere la mia arte e il mio contributo da educatrice accessibili a un pubblico il più ampio possibile. Mi sono appena trasferita in uno studio con una bellissima sedia da scrittura che si affaccia su alcuni abeti secolari, e non vedo l’ora che inizi la lenta ricerca che porterà alla stesura del mio prossimo libro. Al momento, sto ampliando la mia pratica di insegnamento e di conversazione. Per questo, parteciperò a un dibattito su immagine e testo in occasione di Paris Photo a novembre di quest’anno. A dicembre, terrò invece un seminario chiamato «Image-Text Time Machines» in collaborazione con The Photocaptionist: una piattaforma editoriale e curatoriale che esplora la relazione tra fotografia e finzione, immagini e parole, attiva tra Parigi e la Toscana. Spero tanto che la mia pratica continui a crescere di concerto in conversazione con i miei coetanei, i miei studenti, e il mondo intorno a me.

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