Perché Elden Ring sta avendo tanto successo: un'analisi di game design | Eurogamer.it

2022-05-27 17:57:48 By : Ms. Paulina Lee

Elden Ring ha venduto 12 milioni di copie nel giro di un mese. Per avere un po' di prospettiva, A The Witcher 3: Wild Hunt servì un anno per sfondare il muro dei 10 milioni, un'esclusiva di lusso come Horizon Zero Dawn impiegò lo stesso lasso di tempo per toccare quota 7 milioni, mentre solamente Skyrim riuscì a sfiorare il tetto dei 10 milioni nell'arco di trenta giorni.

Al momento del lancio, Elden Ring si è preso le prime posizioni nelle classifiche dei videogiochi meglio valutati di tutti i tempi raccogliendo una media da 96 su Metacritic. È diventato il titolo più trasmesso su Twitch totalizzando 137 milioni di ore di visualizzazione, venendo streammato per oltre 5 milioni di ore e piazzandosi davanti a colossi come League of Legends, VALORANT e GTA V. Anche su YouTube gaming, Elden Ring ha dominato tutti i trend di riferimento, tanto per quanto riguarda le dirette quanto per il numero di contenuti creati.

Su Steam è stato il videogioco più giocato, con 384 milioni di ore all'attivo nei profili tracciati e un picco di 952.000 giocatori simultanei che l'ha reso non solo il quinto videogioco della storia della piattaforma con più giocatori attivi, ma addirittura il primo se si prendono in esame le sole produzioni destinate al single-player.

Insomma, Elden Ring si sta dimostrando uno straordinario successo, una creatura capace di superare le più rosee aspettative di FromSoftware e Bandai Namco, che avevano preventivato la vendita di 4 milioni di copie nel primo periodo post-lancio. A questo punto, i fatti hanno messo la parola fine alle voci che ancora mettevano in discussione che quello di Miyazaki non fosse un centro perfetto, ma una domanda resta senza risposta: perché Elden Ring sta avendo così tanto successo?

Certo, c'è stata una poderosa campagna marketing che ha avuto inizio dall'accostamento del nome di George R. R. Martin all'opera e che è proseguita attraverso diversi showcase che hanno messo l'acquolina in bocca agli appassionati. Addirittura, in Italia, chi è andato al cinema si è trovato al cospetto di un maestoso commercial del videogioco di FromSoftware. Ed è evidente che tutte queste pratiche, unite alla copertura offerta dai content creator e a numerose altre iniziative, abbiano pesantemente influito sui numeri delle vendite. Ma perché alla gente piace così tanto giocare a Elden Ring?

Questa è una domanda alla quale è estremamente difficile rispondere in modo obiettivo. Noi stessi abbiamo realizzato un'analisi discutendo di come Elden Ring abbia “ravvivato la fiamma dell'avventura”, restituendo spolvero a una filosofia di game-design antica e sempre efficace. Alcuni hanno affermato che il titolo offre “una libertà senza precedenti”, altri ancora hanno calcato la mano sulle “emozioni legate alla sfida”. Si tratta d'altro canto – anche nel nostro caso – di affermazioni e analisi che non riescono a fornire risposte concrete, incapaci di svelare l'incantesimo di game design che rende l'opera tanto appetibile per il palato degli appassionati contemporanei.

Perché se è facile individuare dozzine di ragioni sociologiche dietro i freddi numeri delle vendite e dietro la risposta “dorata” che accompagna le release dei lavori di FromSoftware, è molto più difficile sedersi a un tavolo e cercare di capire perché come mai quello che a conti fatti è un puro e semplice titolo action open-world sia così assuefacente, stimolante e dannatamente interessante da giocare.

L'introduzione del mondo aperto ha senza ombra di dubbio influenzato enormemente il destino dell'opera, ma per dare il calcio d'inizio all'analisi ci preme intraprendere un discorso più ampio, uno che si può estendere all'interezza della produzione videoludica open-world. Fra le centinaia di videogiochi votati all'esplorazione che sono usciti nel corso degli ultimi decenni, quelli che hanno raggiunto la maggior diffusione e sono stati in grado di scardinare la monotonia del genere sono stati tutti ambientati nei confini di un setting fantasy.

Questa costatazione, che potrebbe apparire come un'ovvia stupidaggine, nasconde invece le dozzine di limiti nei quali tutte le opere che adottano approcci diversi sono necessariamente costrette ad imbattersi. Il colpo d'occhio che si presenta osservando un gigantesco albero dorato che si staglia contro il cielo, sovrastando un orizzonte punteggiato di enormi rovine e architetture impossibili, ha il duplice effetto di annullare qualsiasi limite alla creatività degli artisti e rendere estremamente più semplici le operazioni di world-building. Diventa facilissimo, infatti, riuscire a catturare l'attenzione del giocatore.

Se in Skyrim è sufficiente posizionare una struttura misteriosa come Labyrinthian o una rocca come quella di Solitude per guidare indirettamente i movimenti di “Atlas” (così veniva chiamato il protagonista manovrato dal giocatore su GameBryo), in una produzione come Fallout bisogna compiere i salti mortali per ottenere il medesimo risultato. L'innovazione creativa che ha accompagnato la produzione di Breath of the Wild, allo stesso modo, sarebbe impossibile da replicare in un contesto differente dalla fantasia magica del regno di Hyrule.

Forse è per questo che gli FPS open-world contemporanei, i titoli ambientati fra le mura cittadine (con la grandissima eccezione rappresentata da GTA V) e quelli anche sapientemente collocati in universi sci-fi, faticano ad eguagliare i risultati dei “grandi” del settore. The Elder Scrolls, The Witcher, Breath of the Wild e Elden Ring: sono tutti juggernaut in termini di diffusione, opere estremamente diverse fra loro che hanno “rivoluzionato il genere open-world” in modo del tutto personale ma che, d'altra parte, sono accomunate dalla scelta di snodarsi nei confini della più classica ispirazione fantasy.

Si potrebbe disquisire della popolarità che caratterizza il fantasy nella cultura di massa, ma a noi interessano le conseguenze tecniche, non le ragioni sociologiche: questo tipo di ispirazione non consente solo di appropriarsi di una totale libertà creativa in termini di setting e world-building, ma influenza pesantemente anche il gameplay e le interazioni. La fluidità garantita agli sviluppatori nella scelta degli ostacoli, dei nemici e delle ricompense, la possibilità di stravolgere l'ambientazione a piacimento e la conseguente capacità di aprire panorami inaspettati dietro ogni semplice ascensore, sono tutti strumenti che FromSoftware ha sfruttato alla perfezione per regalare un sapore unico all'esplorazione dell'Interregno.

Quando FromSoftware ha iniziato a raccogliere i suoi primi successi commerciali attraverso la release dell'originale Dark Souls, e la filosofia dello studio ha raggiunto una nutrita nicchia di utenti, il design dei livelli tipico della casa ha immediatamente attirato l'attenzione del pubblico e degli esperti, che l'hanno subito individuato come uno dei pilastri alla base dell'efficacia ludica.

La “bolla” che costituiva Lordran è divenuta il benchmark di come bisognerebbe realizzare un mondo virtuale che risulti coerente e interconnesso, capace di comunicare con il giocatore attraverso nudi panorami e al tempo di celare agli sguardi meno attenti gran parte della sua essenza. Nell'intera produzione dell'industry, probabilmente, al nome della casa giapponese si poteva accostare solamente quello di Arkane Studios: in un epoca che vedeva il mercato equamente diviso fra i titoli dalla stilistica lineare e quelli di più ampio respiro, questa coppia di software-house ha riportato la costruzione del mondo all'interno di un confine artigianale.

L'unicità di Elden Ring sta nell'aver preso questa formula, che probabilmente impiega anni di lavoro agli artisti dello studio, e nell'averla riproposta – forse per la prima volta – nei confini di un gigantesco setting aperto e in tutte le sue più piccole arterie. Lo stesso Interregno è un enorme dungeon che, come una matrioska, ospita al suo interno piccoli capolavori di level design capaci di mantenere il giocatore costantemente coinvolto nel processo esplorativo, senza la benché minima riduzione del grado di attenzione.

Certo, il design del mondo di gioco è un procedimento impegnativo per qualsiasi software house, ma per raggiungere un risultato come quello toccato in Elden Ring occorre riservare alle architetture un livello di cura artigianale che, semplicemente, non si trova da nessun altra parte. Pensate ad esempio ai tool che gestiscono autonomamente la propagazione delle foreste, o all'uso prettamente scenografico che alcuni colossi del settore fanno dei panorami sconfinati: in Elden Ring – opera costruita mattoncino su mattoncino - sono elementi che non potrebbero mai trovare spazio.

“Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora”. C'è una targa piazzata in fondo ai binari del treno che porta all'aeroporto di Milano Malpensa che recita proprio queste parole: praticamente è una sorta di easter egg nella vita reale. Non abbiamo citato questa particolare targa solo per fare un parallelismo con il classico “segreto” videoludico, ma anche per il significato stesso della frase incisa nella lastra di marmo di Malpensa.

I segreti, nei videogiochi, sono fra gli strumenti comunicativi più potenti a disposizione degli sviluppatori: dialoghi speciali che risuonano in cuffia al verificarsi di determinate condizioni, aree che si spalancano per premiare gli esploratori più attenti, contenuti opzionali che non aspettano altro di essere scoperti. Non è un caso che il Player One di Ernest Cline (da cui è stato tratto il film di Steven Spielberg Ready Player One) poggi le fondamenta del suo intero intreccio attorno al concetto stesso di easter egg.

Non è un caso che alcuni fra gli elementi che più sono rimasti impressi nella memoria dei veterani dei videogiochi ruotino proprio attorno al concetto del “segreto”: i tantissimi boss nascosti nei mondi della serie di Final Fantasy, le zone speciali disseminate negli angoli più remoti dei livelli di Doom, o più semplicemente una lunga missione per recuperare uno spadone sullo sfondo della Hyrule di Ocarina of Time. Sono momenti in cui si ha la sensazione di star giocando “nel modo giusto”, e sembra quasi che lo sviluppatore abbia confezionato quel particolare contenuto apposta per “noi”, perché ci impegnassimo a trovarlo nel corso della nostra personale avventura.

In Elden Ring le formule di esplorazione e di interazione con gli NPC sono interamente costruite sopra questo concetto: "tutto quello che hai fatto ti ha portato qui, in questo momento". Davanti a un potentissimo boss opzionale, di fronte a uno scrigno contenente un'arma leggendaria, al cospetto di una divinità assetata di vendetta, o magari nelle profondità di un'antica città dimenticata. Mentre altre software house avrebbero puntato riflettori accecanti sui contenuti più preziosi della produzione, FromSoftware ha scelto invece di nasconderli sotto un velo di segretezza, consapevole del legame intimo che avrebbe creato tra giocatore e videogioco.

Prendendo in esame qualsiasi titolo in circolazione, che sia o meno un videogioco open-world, è estremamente semplice discernere le diverse entità che costituiscono il gameplay. Ci possono essere ad esempio fasi di traversing, segmenti GDR, tranche narrative, combattimenti, momenti di esplorazione, enigmi, e via dicendo. C'è chi ha costruito il proprio successo destrutturando questi elementi, per esempio Death Stranding che ha trasformato le fasi di traversing nell'elemento dominante del giocato, ed esistono al contempo numerose opere nelle quali è estremamente semplice individuare quali componenti brillino e quali invece risultino sottotono.

Elden Ring, dal canto suo, non vive di queste distinzioni e sceglie invece di fondere tutte le sue componenti in un singolo amalgama che vada a costituire l'interezza del gameplay. Affrontare un boss significa ascoltare una storia e al tempo stesso risolvere un enigma, l'esplorazione si verifica in concomitanza all'emersione della componente ruolistica e soprattutto all'emersione del combattimento, mentre il sottotesto GDR accompagna ciascun elemento della sinfonia. È come se il loop di gameplay non fosse spezzato in segmenti, ma partisse dalla creazione del personaggio per arrivare fino ai titoli di coda, durante un lungo piano sequenza girato dalla programmazione.

È un titolo nel quale si “gioca” costantemente, secondo il significato più classico, antiquato e a tratti anche becero del termine, quel significato che molti appassionati fanno proprio a sproposito criticando aspramente le produzioni che definiscono “scriptate” o “prive di vero gameplay”. Questa sorta di “gioco perpetuo” potrebbe essere proprio l'ingrediente segreto dietro il fascino che Elden Ring esercita anche su persone aliene al genere e alla produzione della casa, consentendo loro di saltare senza sforzo dalle arene competitive degli FPS online fin dentro l'Interregno.

Viene da sé che perché questo genere di filosofia funzioni, è strettamente necessario che la formula d'azione che sorregge il gameplay sia di per sé impeccabile. Fortunatamente per Bandai Namco, Miyazaki e FromSoftware non conoscono rivali su questo campo di battaglia, avendo architettato dinamiche di gioco, IA, moveset e tecnicismi talmente efficaci da diventare senza sforzo i più imitati in circolazione.

In un'epoca ormai lontana, il gioco andava a braccetto con il “metagioco” analogico secondo l'accezione attribuita al concetto da Richard Garfield, il creatore di Magic: The Gathering. Con questo termine Garfield indicava tutte le attività esterne al gioco seppur strettamente connesse al gioco stesso, come una conversazione con un gruppo di amici, un semplice consiglio ricevuto o qualsiasi genere di confronto emerso nella vita esterna al tabellone ma intrinsecamente legato al tabellone.

Elden Ring, come tutte le opere di FromSoftware, trae immensa forza dalla componente del metagioco: è una delle poche opere durante le quali è possibile staccare la console, rivolgersi a un amico e dirgli qualcosa del genere: “Sai che oggi ho affrontato un dungeon che si trovava lì e ho raccolto l'oggetto tal dei tali? Dovresti prenderlo anche tu!”.

L'incessante scambio di informazioni che accompagna il viaggio nei mondi dipinti da Miyazaki è parte integrante dell'esperienza, ed è proprio a partire da questo genere di condivisione che si è venuto a creare l'immenso tessuto di creatori di contenuti che orbitano attorno all'opera. Il gioco va avanti anche quando la console è spenta, arrivando ad abitare sui banchi delle scuole, nelle aule universitarie e di fronte alle macchinette del caffè negli uffici.

La grande differenza che illumina FromSoftware rispetto alla concorrenza, d'altra parte, risiede nell'immensa componente di discussione che fiorisce attorno al nebuloso elemento narrativo delle opere, disegnando una eco-camera di comunicazione che ricorda molto da vicino quella fiorita anni addietro attorno ai primi serial episodici. Torna alla mente, ad esempio, il periodo in cui la serie Lost veniva trasmessa da mamma Rai, un singolo episodio alla settimana: gli appassionati non vedevano l'ora di precipitarsi nei forum e condividere le proprie opinioni in merito alle ultime teorie e interpretazioni.

Oltre ad unire persone, creare comunità, stimolare la condivisione e la comunicazione, Elden Ring riflette questa sua natura anche nel comparto del gameplay, dal momento che è possibile evocare il fantasma di un amico, o magari quello di uno sconosciuto, per affrontare sfide apparentemente impossibili e condividere la gloria della vittoria.

La delicata operazione di bilanciamento tra la frustrazione derivante dalla sconfitta e il senso di assuefazione che accompagna la vittoria rappresenta una sfaccettatura del medium vecchia quanto lo sono le macchine Coin-Operated. Nelle sale giochi non esistevano titoli facili, non erano proprio previsti alla luce del business model che regolava il mercato dell'epoca. Non esistevano neppure nelle prime generazioni di home-console, e sappiamo che questa faccenda ha fatto saltare sulla sedia persino David Jaffe, il papà di God of War: “I giochi sono troppo difficili! Si sta tornando all'epoca di NES e SNES! Odio quella merda!” - sono queste le parole colorite con le quali ha commentato la recente deriva del mercato.

Ciò detto, è innegabile che Jaffe abbia in parte ragione: il medium del videogioco si è evoluto per funzione, aspirazioni, scopi e dimensioni fino a raggiungere un pubblico immenso, ed è del tutto normale – nonché auspicabile – che l'industry punti verso la totale inclusività. Ma ciò non deve significare il non voler riconoscere l'efficacia di una formula di per sé vincente, vicina all'assuefazione del “gambling” ma priva di qualsivoglia effetto negativo o dannoso.

La sensazione che si prova quando, dopo infiniti tentativi e dopo aver potenziato accuratamente il proprio avatar, si riesce a mettere a tacere il nemico apparentemente invincibile nel contesto videoludico, è qualcosa che conosce pochissimi comparativi, dentro e fuori dai mondi virtuali. Il che si potrebbe riassumere in una semplicissima constatazione: giocando a Elden Ring capita di esultare. Di esultare genuinamente, proprio come quando Fabio Grosso segna il rigore che manda a casa la Francia e mette la Coppa del Mondo nelle mani di Cannavaro. Quanti videogiochi fanno questo?

Il punto è che quel rigore l'ha calciato Fabio Grosso, mentre siamo stati noi ad abbattere una spadaccina invincibile, siamo stati noi a completare quell'avventura che la comunità internazionale ci presentava come difficilissima, siamo stati noi a completare un faticoso percorso di auto-miglioramento fino a compiere un'impresa che sì, ci sembrava impossibile, ma che è sempre stata onesta fin dall'istante del concept.

Anche se questo rappresenta probabilmente il punto più controverso nell'analisi tecnica di un'opera come Elden Ring, è anche uno dei più importanti in assoluto da prendere in considerazione: FromSofware, in qualità di software-house, nutre nei confronti del suo pubblico un livello di fiducia che nessun altro sviluppatore ha mai dimostrato nel corso degli ultimi anni.

Quella che viene spesso male interpretata come scarsa accessibilità o insufficienza dell'interfaccia utente, rappresenta invece una scelta consapevole di stampo creativo volta a “restituire” al giocatore l'importanza e la responsabilità di cui è stato lentamente privato al crescere della massa critica dei videogiocatori. Una fiducia, questa, che si traduce nel ritorno a quella sensazione di libertà di cui numerosi appassionati della prima ora si lamentano spesso d'esser stati privati senza motivo apparente.

Un tempo nei videogiochi della serie The Elder Scrolls era possibile eliminare qualsiasi personaggio, in Daggerfall e Morrowind era addirittura possibile rimanere costretti in un hard-lock fuori dalla missione principale compiendo le scelte sbagliate. Un tempo nei GDR c'erano effetti di stato nebulosi, non esistevano gli indicatori di missione, non era presente un golden path esplicitato nell'interfaccia, non era previsto un singolo percorso di potenziamento dal sicuro successo.

La responsabilizzazione della figura del videogiocatore è senza ombra di dubbio figlia della fiducia che gli autori ripongono verso gli appassionati, e non solo di quella elite (spesso tossica) che da anni si muove nei mondi di Miyazaki, ma di tutti gli appassionati, anche di chi sta tentando di effettuare un “parry” per la prima volta all'ombra dell'Albero Madre. La fitta coltre di nebbia che avvolge la trama, le meccaniche e l'interfaccia non è il frutto di una carenza, bensì di una scelta che tantissime persone che stanno avvicinando Elden Ring hanno percepito come una fresca boccata d'ossigeno.

Nella nostra recensione abbiamo calcato la mano nel definire Elden Ring un'opera “fuori scala”. L'avevamo fatto anche nei riguardi di Red Dead Redemption 2, ma se in quel caso avevamo preso in esame i valori produttivi, per quanto riguarda il titolo di FromSoftware tentavamo di comunicare una caratteristica decisamente più concreta: Elden Ring è un videogioco che non finisce mai, e ha un “value for time” straordinario.

Ormai i videogiochi in giocatore singolo che riescono a impegnare l'utente per un mese e oltre si possono contare sulle dita di una mano, i metodi e le tempistiche di fruizione sono cambiate, così come sono cambiati i modelli di business, che spingono i produttori a spezzettare i contenuti al fine di garantirsi il massimo dei ricavi in uno spazio di tempo che sia il più vasto possibile. La “longevità”, di conseguenza, non è assolutamente identificabile come caratteristica esclusivamente positiva, a meno che, ovviamente, non si trascorra del tempo di grande qualità dall'altra parte dello schermo.

Dall'altra parte dello schermo FromSoftware ci ha costruito un mondo intero, stuzzicando la meraviglia infantile dei giocatori durante la scoperta di una nuova area, risvegliando costantemente la gioia dimenticata che si prova svelando il “segreto” nascosto dallo sviluppatore, premiando qualsiasi sforzo – dal più grande al più minuto – con una ricompensa capace di regalare un senso a ogni singolo secondo investito nel gioco.

Se videogiocare in modo sano significa investire del tempo di qualità e ricevere in cambio grande rispetto per il tempo investito da parte dello sviluppatore, allora Elden Ring ha segnato un centro perfetto. Ed è impossibile, al tempo stesso, scindere questo concetto di “value for time” da quello più grezzo di value for money: in un videogioco “normale” - fra quelli nostri contemporanei - una quantità di contenuti, ambientazioni e situazioni di assoluta qualità come quella offerta da Elden Ring sarebbe raggiungibile solamente in seguito all'iniezione di diversi DLC.

Questi, secondo noi, rappresentano i “minimi termini” da cui è scaturita la nuova leggenda di Elden Ring. Una leggenda che, ovviamente, poggia gran parte del suo peso sulle solide fondamenta che tutto il team di FromSoftware ha contribuito a costruire nel corso degli ultimi tredici anni, portando una serie di innovazioni – ma anche e soprattutto di classicismi e ritorni al passato – capaci di influenzare irrimediabilmente il medium e le lenti attraverso cui lo analizziamo.

Non vogliamo adottare uno scontato approccio fatalista, dicendo che Elden Ring cambierà per sempre la nostra visione dei videogiochi open-world e metterà in grande crisi tutti i creativi che hanno attualmente in cantiere opere di questo genere, ma senza ombra di dubbio si ergerà come un assoluto benchmark per quanto riguarda la pienezza e la percezione di questo tipo di produzioni.

Non è l'abito da soulslike a fare di Elden Ring una grande opera. Non è neanche il sistema di combattimento, e soprattutto non è il livello di sfida. Questi sono solo alcuni fra i singoli elementi che suonano la sinfonia di FromSoftware, e sarebbe non solo sbagliato, ma addirittura controproducente tentare di prenderli a modello.

La nostra speranza è che i creatori di domani riusciranno a realizzare un incantesimo proprio, tentando sì di generare emozioni e risposte simili a quelle emerse al cospetto di Elden Ring, ma inseguendo questo risultato attraverso una marcata identità, che sia accompagnata dal livello di qualità generale, di rispetto del tempo dell'utenza e d'ispirazione artistica che hanno trascinato FromSoftware fino a vette che non aveva mai raggiunto prima.

Cresciuto a pane, cultura nerd e videogiochi, i suoi primi ricordi d'infanzia sono tutti legati al Super Nintendo. Dopo aver lavorato dentro e fuori dall'industry, è finalmente riuscito ad allontanarsi dalle scartoffie legali e mettere la sua penna al servizio di Eurogamer.it.

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