"MORO , IL CASO NON E' CHIUSO" - HuffPost Italia

2022-05-29 00:53:42 By : Ms. janny hou

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Oggi, 40 anni fa, veniva ucciso Aldo Moro.

Dove? Come è stato ucciso? Chi lo ha ucciso? Quando è stato ucciso? Contrariamente a quanto si possa pensare l'assassinio di Moro è un delitto non ancora definitivamente risolto. Alla luce dei risultati delle nuove tecniche d'indagine scientifica è un vero e proprio cold case.

Una riscrittura della scena e delle modalità del delitto è ormai necessaria dopo le molte novità emerse grazie alle nuove indagini affidate al RIS (Reparto di investigazioni scientifiche) dei Carabinieri dalla Commissione parlamentare d'inchiesta Moro-2, presieduta da Giuseppe Fioroni, che ha chiuso i suoi lavori il 28 febbraio 2018.

Esse colmano un clamoroso vuoto di investigazione: sono accertamenti che nessun inquirente aveva mai ritenuto di effettuare prima del maggio 2017.

Soprattutto, il delitto - così come è stato ricostruito su basi scientifiche a quarant'anni dai fatti - acquista i connotati di un assassinio feroce, veramente efferato.

I brigatisti hanno sempre affermato che Moro morì sul colpo. Questo non è assolutamente vero. Sul bavero sinistro della giacca di Moro il RIS ha trovato quella che è stata definita dal suo Comandante, una "particolarità": lì c'è tutt'oggi traccia di un rigurgito di saliva, che la vittima ha espettorato ancora vivo.

Già, secondo l'autopsia, eseguita il 9 maggio 1978, Moro sarebbe morto almeno quindici minuti dopo che gli hanno sparato.

Alle 19 di sera del 9 maggio 1978 quando inizia l'esame necroscopico il rigor mortis non è ancora completo, il che vuol dire che, sia pur in modo molto approssimativo, non sono passate 12 ore dal decesso.

Ma "un morto parla, se lo si lascia parlare", ebbe a dichiarare pochi giorni dopo l'assassinio un alto funzionario di Polizia, e il RIS, a seguito dei suoi ulteriori approfondimenti, è giunto alla conclusione che la morte è sopraggiunta sicuramente dopo un' agonia molto lenta.

La narrativa della morte sul colpo non è solo un modo, diciamo così, per "ammorbidire" il delitto, con una bugia che potrebbe sembrare pietosa.

Essa è servita a celare la verità su come siano andati realmente i fatti.

I primi tre colpi colpiscono Moro a bruciapelo, vengono sparati contro una vittima vigile, a volto scoperto, non bendata né tanto meno avvolta dalla famosa coperta che coprì il cadavere nel bagagliaio della Renault 4.

Moro dunque guarda￲ in faccia i suoi assassini. Guarda negli occhi chi gli sta sparando

Muore per emorragia interna, avendo perso quasi un litro di sangue (900 cl). Sangue di cui c'è una grossa chiazza sul pianale del bagagliaio della Renault rossa, insieme ai liquidi organici rilasciati al momento della morte.

Anche chi spara guarda Moro negli occhi, e la vittima alza la mano sinistra per difendersi istintivamente dalla mitraglietta.

Soprattutto, oggi sappiamo che - quando inizia ad essere colpito - Moro non è disteso dentro il cofano della famosa Renault Rossa in cui fu trovato cadavere in via Caetani, perché - ormai è un fatto certo - i colpi arrivano non dall'alto verso il basso, come sarebbe avvenuto in quel caso, ma al contrario dal basso verso l'alto. Tanto da far pensare che l'esecuzione possa addirittura essere cominciata quando la vittima era in piedi. Un'esecuzione barbara e imprecisa che contrasta con "la geometrica potenza" dispiegata al momento del rapimento in via Fani, nel corso del quale Moro rimase praticamente illeso, dopo una sparatoria in cui sono stati esplosi 93 colpi.

Un'altra, insomma, è la mano che uccide

I dubbi dei magistrati. Le nuove attività di indagine della Commissione parlamentare Moro 2 - i cui risultati insieme al Presidente Fioroni ho raccolto in un libro - che sarà presentato domani al Salone del Libro di Torino - hanno preso le mosse dai dubbi espressi già dalla sentenza di primo grado del cosiddetto processo Moro-quinquies, l'ultimo in ordine di tempo dei processi penali istruiti dalla magistratura romana per la strage di via

Fani e l'assassinio di Moro. Proprio quella sentenza del 16 luglio 1996 - a proposito della verosimiglianza o meno del racconto del trasporto di Moro dalla prigione nella cesta e dell'esecuzione nel garage - affermava:

"Non si comprende come i brigatisti abbiano accettato un simile e gratuito rischio, quando avrebbero potuto facilmente evitarlo, ad esempio uccidendo l'on. Moro nella sua stessa prigione e trasportandolo poi da morto; e incredibile sembra il fatto che si sia programmata l'esplosione di una serie di colpi, quanti risultano dalle perizie, in un box che si apriva nel garage comune agli abitanti dello stabile, essendo noto che anche i colpi delle armi silenziate producono rumori apprezzabili, che potevano essere facilmente percepiti da persone che si trovassero a passare, così come furono distintamente percepiti dalla Braghetti".

Sul luogo presunto del delitto - il garage di via Montalcini 8 - gli uomini del RIS hanno ripetuto gli spari, hanno fatto misurazioni, registrato rumori, scattato foto ed effettuato filmati video.

E si è accertato che l'auto che è stata la prima bara di Aldo Moro, poteva solo con difficoltà entrare nel box di via Montalcini così come esso era nel 1978 (prima dei lavori di ampliamento e di rifacimento cui è stato sottoposto) per consentire l'esecuzione della condanna.

La Renault rossa non poteva entrarci con il portellone posteriore aperto. O meglio, per entrarci doveva sporgere all'esterno di parecchio, e diventare visibile per qualunque condomino avesse avuto la necessità di uscire usando la propria vettura (comunque un rischio elevato, anche se l'orario indicato dai brigatisti, le 6.30 del mattino, fosse corretto). E in effetti un'inquilina del quinto piano sosterrà - già ai primi di luglio del 1978 - di aver visto Anna Laura Braghetti nel garage e una Renault rossa parcheggiata. Ma "qualche giorno prima" del 9 maggio testimonierà ai magistrati.

Per non parlare del rumore che i colpi (anche silenziati) produrrebbero, se sparati in una palazzina come quella di via Montalcini, una palazzina di cortina, con grandi finestre a vetri e muri di modesto spessore, ben diverse da quelle del centro storico della capitale, dove i muri perimetrali sono di pietra piena (non di mattoni forati) e possono essere spessi anche oltre un metro.

Un condominio posto per di più in una strada che costituisce uno degli accessi a una grande aerea verde, Villa Bonelli, in primavera rifugio di stormi di uccelli, che sicuramente si sarebbero spaventati all'udire molteplici colpi.

Sulla base delle attività compiute dal RIS in relazione alla ricostruzione della dinamica del delitto, essa, oggi, può￲ essere così riassunta.

Moro eretto, fuori dalla Renault, a sparare inizia la Skorpion

L'ipotesi ritenuta scientificamente più probabile è che in un primo momento la vittima sia stata colpita anteriormente al torace sinistro da almeno tre colpi sparati a bruciapelo con la mitraglietta Skorpion.

L'inclinazione di tali traiettorie è pressoché ortogonale alla superficie del corpo e la postura della vittima è, verosimilmente, con il busto eretto e seduta, come dimostrato dalle colature di sangue sulla maglietta intima unitamente alle proiezioni e colature di fluido biologico sui pantaloni. E' probabile che, proprio in quel momento, la vittima sia stata ferita anche al pollice della mano sinistra, protesa in avanti in un istintivo gesto di autodifesa, e che il medesimo proiettile abbia poi proseguito la sua traiettoria raggiungendo il torace anteriormente.

Tale fase iniziale della dinamica del delitto potrebbe essere avvenuta anche ipotizzando Aldo Moro seduto sul pianale del portabagagli della Renault 4, sopra la coperta, con il busto eretto e le spalle rivolte verso l'interno dell'abitacolo. Non si pu￲ò tuttavia escludere che la vittima fosse seduta con il busto eretto in qualsiasi altro ambiente, compreso il sedile posteriore dell'auto. E - come ipotesi "in maniera residuale" - che fosse in piedi. Il colonnello Ripani, comandante del RIS, ha espresso - in un'audizione davanti alla Commissione Moro2 - la sua opinione di esperto, e cioè che i primi colpi abbiano raggiunto la vittima, seduta, probabilmente fuori dall'auto.

Quest'ultima ipotesi giustificherebbe, sul piano logico, il ritrovamento durante l'ispezione cadaverica del 1978 di fazzoletti di carta - che per￲ non sono più ormai tra i reperti, finiti chissà dove - inseriti tra la camicia e il gilet. Infatti essi potrebbero aver avuto lo scopo di tamponare le prime ferite al torace, durante il trasporto della vittima dal luogo dei primi colpi fin dentro il vano portabagagli.

Inoltre, secondo i risultati degli accertamenti del RIS riferiti dal colonnello Luigi Ripani, "contrariamente a quanto riportato in atti", Moro è stato colpito da dodici proiettili: otto calibro 7,65 estratti dal cadavere durante l'autopsia; due calibro 7,65, ritrovati tra la maglia intima e la camicia; due fuoriusciti dal corpo, perforando la giacca e la coperta (dei quali uno solo repertato, sul pianale del portabagagli, il calibro 9).

Dodici colpi dunque, e non undici come dichiarato dai brigatisti, visto che altrimenti esiste una assoluta discrepanza tra i fori di ingresso e i proiettili usciti o ritenuti. Se ne deduce che il dodicesimo colpo potrebbe trovarsi ancora nel corpo di Moro. Lo si sarebbe potuto accertare subito, semplicemente con un esame radiografico che al tempo del delitto fu realizzato, ma che - non si sa perché - non risulta più agli atti.

I reperti balistici rinvenuti sulla scena del crimine e dopo l'autopsia del 1978 sono questi: 9 bossoli e 11 proiettili. Mancano 3 bossoli e un proiettile.

Secondo la ricostruzione del RIS, Moro già colpito, ma ancora vivo, viene spostato, disteso in posizione supina nel vano portabagagli, sopra la coperta stesa sul pianale della Renault, con il capo contro la parte sinistra dell'auto.

Il tenente colonnello Paolo Fratini, ascoltato in Commissione Moro-2, ha osservato che parte della coperta doveva trovarsi sotto il corpo, mentre l'altra non poteva ricoprirlo completamente, altrimenti sarebbe stata perforata dai proiettili.

C'è un altro importante dettaglio. Durante lo spostamento di Moro ancora vivo dentro il bagagliaio cadono evidenti macchie di sangue, ancora oggi visibili sul paraurti della Renault 4. E questo, insieme all'uso dei fazzoletti di carta, avvalora l'ipotesi che i primi colpi siano stati sparati fuori dall'auto. Magari vicino, ma fuori dall'auto.

La pistola semiautomatica Walther quindi avrebbe sparato non all'inizio dell'azione come ha raccontato Germano Maccari , il cosiddetto quarto uomo di via Montalcini, (secondo il quale quella pistola si inceppò￲ e lui allora pass￲ la Skorpion a Mario Moretti), ma presumibilmente alla fine.

E' la Walther PPK che "firma" il delitto?

Nel corso dell'autopsia è stata riscontrata una forma a stampo di una corona circolare sul gilet di Moro, verosimilmente riferibile alla pressione esercitata dalla parte superiore di un silenziatore sull'indumento, all'atto dello sparo di un colpo a bruciapelo.

Ma quale silenziatore? Il colonnello Ripani ha specificato che l'unico silenziatore presente tra i reperti è uno realizzato in modo artigianale per la Skorpion, ma il punto è che esso non corrisponde al segno lasciato sugli indumenti di Moro da un colpo sparato a contatto con quel silenziatore montato.

Confrontando la forma circolare con quella del silenziatore artigianale applicato alla Skorpion, non c'è compatibilità sia per le dimensioni del diametro, sia per la presenza di nastro isolante sporgente dalla parte superiore. Infatti quest'ultimo, in una ipotetica azione di pressione sull'indumento, avrebbe impedito la formazione "a stampo" di una corona circolare ben definita come quella osservata sul gilet della vittima. Di qui, due ipotesi possibili secondo il RIS: "O un silenziatore era montato anche sulla Walther al momento in cui tale pistola ha sparato il proiettile calibro 9 corto oppure la Skorpion ha sparato con un ulteriore silenziatore".

Al riguardo va ricordato inoltre che gli accertamenti balistici comparativi non hanno consentito di stabilire se i proiettili calibro 7,65 trovati nella Renault 4 rossa siano stati sparati con o senza il silenziatore montato sulla Skorpion. In ogni caso l'abbondanza di residui dello sparo sugli indumenti di Aldo Moro indica un'estrema vicinanza della vittima all'arma o alle armi durante l'azione di fuoco.

E' stato accertato che, impugnando la Skorpion in modo tale da orientare la bocchetta di espulsione verso destra con un angolo di 45 gradi, i bossoli esplosi vengono espulsi con una traiettoria parabolica di oltre 4 metri e ci￲ potrebbe giustificare il ritrovamento di almeno cinque di essi nella parte anteriore dell'abitacolo, senza che si debba necessariamente ipotizzare che la sparatoria sia avvenuta all'interno dell'auto.

Il RIS, infatti, ritiene meno probabile l'ipotesi alternativa secondo la quale in un primo momento la vittima è stata colpita al torace quando era seduta all'interno della Renault 4, mentre lo sparatore (plausibilmente) occupava la posizione del passeggero anteriore.

Riassumendo. Moro è seduto su una sedia, accanto alla Renault 4, o forse addirittura in un altro ambiente, guarda negli occhi chi gli spara. Il fuoco parte con tre colpi di Skorpion 7,65.

La vittima si accascia. Viene spostata, sistemata nel portabagagli dell'auto ed è lì che vengono esplosi gli altri nove colpi (con Moro vivo e sempre a volto scoperto).

Alla fine dell'azione omicida, Moro è ancora colpito a bruciapelo dalla Walther calibro 9 corto, anche denominata PPK, un'arma prodotta nel secondo dopoguerra nell'Europa dell'Est, come variante "corta" della più nota P38, in dotazione all'esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale.

Il cuore di Moro, non viene raggiunto da nessun proiettile

I proiettili 9 e 7,65 sono di piccolo calibro. I colpi non sono di per sé mortali, causano ferite che tuttavia, anche se multiple, provocano una morte molto lenta. Si può￲ arrivare ad ipotizzare fino a 40 minuti di agonia.

Chi ha compiuto un omicidio così crudele non può￲ non ricordarlo con precisione. Non si può￲ non ricordare con esattezza un evento così drammatico.

Chi ha sparato non pu￲ò dimenticare. E invece contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, i racconti del capo delle Br Mario Moretti, di Maccari e Prospero Gallinari (il carceriere di Moro), sull'esecuzione dell'omicidio sono imprecisi e contraddittori. Dei tre solo Moretti è ancora in vita. Maccari è morto a 48 anni, nella sua cella del carcere di Rebibbia , a fine agosto 2001. Il sabato precedente aveva incontrato i familiari, raccontando loro di un imminente permesso premio. Gallinari è morto il 14 gennaio del 2013 nel garage di casa sua a Reggio Emilia, dove da anni era agli arresti domiciliari visto che Moretti nel 1993 lo aveva discolpato dall'assassinio.

Al termine, la vittima è stata sistemata a forza nel vano portabagagli con le gambe flesse all'indietro e anche facendole compiere una rotazione antioraria del busto. E' in questa posizione che il rigor mortis "fissa" il cadavere di Moro, quando arriva all'Istituto di medicina legale.

Nel giugno 1980, nel covo romano di via Silvani venne ritrovata anche una pistola Walther calibro 9. Oggi sappiamo che quella pistola era proprio la PPK usata per uccidere Moro. Solo nel 2016, il proiettile e il bossolo calibro 9 trovati tra i reperti della Renault 4 rossa, abbandonata in via Caetani, sono stati oggetto di confronto con l'arma di via Silvani, da parte del RIS. Dagli accertamenti comparativi è risultata "una identità balistica", tra proiettile, bossolo e arma: quindi il proiettile calibro 9 è stato esploso proprio da quell'arma.

Il covo di via Silvani fu individuato dai Carabinieri, dopo le operazioni in Piemonte, scaturite dalla collaborazione di Patrizio Peci, e l'irruzione nel covo in via Fracchia, a Genova, nel corso della quale morirono quattro brigatisti, tra i quali il capo militare della "colonna" , e braccio destro di Mario Moretti, Riccardo Dura.

Il box, una scatola troppo piccola

Proprio alla luce degli accertamenti condotti sulla dinamica dell'omicidio, sui colpi sparati e in quale sequenza, la Commissione Moro 2 ha richiesto di disporre di elementi di valutazione sulla reale praticabilità dell'omicidio di Moro nel garage di via Montalcini 8, secondo le dichiarazioni dei brigatisti.

Il 4 maggio 2017 il RIS ha svolto delle prove d'ingombro di una Renault 4 nel box-garage di via Montalcini 8, e ha effettuato delle vere prove di sparo con le armi usate per l'esecuzione dell'omicidio (la pistola semiautomatica Walther calibro 9 corto e la mitraglietta Skorpion calibro 7,65 con relativo silenziatore), per verificare anche l'effettivo fragore dell'esplosione dei colpi.

Per prima cosa il RIS ha verificato che il box nel corso del tempo ha subito importanti modifiche strutturali volte al suo ampliamento. E in secondo luogo, che nel 1978 la sua porta di ingresso non era a serranda come adesso, ma basculante.

In base alle prove compiute, reali (collocando fisicamente una Renault 4 all'interno del box) e virtuali (elaborando i dati acquisiti con il Laser Scanner 3D), sono state formulate diverse conclusioni possibili. Se la porta basculante che esisteva nel 1978 fosse stata chiusa completamente, anche posizionando

la Renault 4 in retromarcia fino a far toccare con la sua parte anteriore la parte interna della basculante, sarebbe risultato pressoché impossibile aprire/chiudere il portellone dell'auto, senza evitare che quest'ultimo urtasse sulla parete di fondo (a prescindere dal modo più o meno obliquo, con cui poteva esser parcheggiata in retromarcia l'auto nel box).

Se invece la Renault 4 fosse stata parcheggiata in retromarcia nel box con il portellone posteriore già aperto, allora la porta basculante (dopo tale manovra) si sarebbe potuta chiudere completamente. Tuttavia, in tale caso, lo spazio di manovra dietro la Renault 4 sarebbe stato di poco superiore a 0,40 m.

E cioè chi ha sparato avrebbe avuto a disposizione meno di mezzo metro per compiere l'esecuzione.

Inoltre anche in questa ipotesi il portellone del cofano avrebbe urtato comunque la parete di fondo del box.

Se invece la Renault 4 fosse stata parcheggiata nel box in retromarcia, a una distanza dalla parete di fondo superiore a 0,51 m, allora molto probabilmente (si legge nella perizia) "la sua parte anteriore sarebbe sporta oltre l'ingresso del box", e la porta basculante non si sarebbe potuta chiudere del tutto. E' solo in questa seconda ipotesi che il portellone posteriore si sarebbe potuto chiudere/aprire liberamente (cioè senza urtare sulla parete di fondo del box).

Anche sul lato lungo del box lo spazio residuo non sarebbe stato molto ampio. Se la Renault 4 fosse stata parcheggiata in retromarcia accostandola al lato destro, lo spazio disponibile sull'altro lato sarebbe stato compreso all'incirca tra 1 m e 1,6 m. Se viceversa fosse stata parcheggiata in retromarcia accostandola al lato sinistro, lo spazio residuo su quello a destra poteva variare tra 1 e 1,5 m all'incirca.

Quindi 50 centimetri al massimo di distanza dalla parete di fondo (con la porta basculante aperta) e circa un metro e mezzo di spazio sul lato lungo del box.

Secondo i RIS e la Commissione d'inchiesta Moro 2, anche se "alcune delle ipotesi formulate sono astrattamente compatibili con l'esecuzione dell'omicidio nel box [di viaMontalcini], nel complesso si rafforzano i dubbi che sul piano logico, si evidenziano rispetto alla praticabilità, in quel luogo, dell'azione omicidiaria".

Prove di sparo del RIS con la porta aperta per motivi di sicurezza

Il RIS ha anche condotto test reali di sparo con entrambe le armi usate per uccidere Moro, utilizzando il munizionamento del campionario di laboratorio.

Ma il fatto più importante è che, per garantire la sicurezza degli uomini del RIS, si è reso necessario esplodere i colpi d'arma da fuoco a una distanza dal retro della Renault 4 tale che tutta la sua parte anteriore sporgeva dal box. Cioè la saracinesca di chiusura, presente attualmente è dovuta rimanere completamente sollevata nel corso di tutti i test di sparo, consentendo così la propagazione delle onde sonore nello stabile.

Dopo la sperimentazione effettuata il 4 maggio 2017 in via Montalcini a Roma, si può￲ quindi concludere che "non si pu￲ò in modo assoluto escludere - anche alla luce degli esami balistici - un'azione di fuoco nel box in questione contro Aldo Moro, anche se essa appare poco probabile sul piano dei rischi" cui avrebbe esposto il commando e della richiesta rapidità di azione, a motivo dell'esiguità degli spazi.

Il rischio non solo di essere sentiti e scoperti, ma anche quello non trascurabile di mettere in pericolo l'incolumità di chi doveva sparare, come dimostra il fatto che il RIS non ha potuto effettuare i test con la porta del box chiusa per ragioni di sicurezza, volendo garantire cioè l'incolumità dei suoi operatori dai colpi di rimbalzo.

La necessità di tenere la porta saracinesca aperta - nonostante l'uso del silenziatore - ha fatto avvertire, durante l'esperimento dei RIS, il rumore delle espulsioni, come era facile prevedere, "soprattutto nei locali più vicini, cioè quelli dell'androne e lo spazio esterno, e cioè i luoghi dove che, su un è maggiormente ipotizzabile il rischio di passaggio di inquilini", anche nell'orario indicato dai brigatisti, le 6.30 del mattino, in cui non sono pochi quelli che già escono da casa per arrivare in tempo sul posto di lavoro.

Via Montalcini, la prigione "ufficiale" (ed unica ) di Moro

L'appartamento di via Montalcini venne a definirsi come "prigione ufficiale" di Moro, attraverso un complesso processo testimoniale che si sviluppò￲ almeno per tutti gli anni '80 (il primo sopralluogo di Valerio Morucci e Adriana Faranda con i magistrati romani Rosario Priore e Ferdinando Imposimato avvenne il 17 giugno 1985). Il covo di via Montalcini divenne così una delle architravi del "perimetro" della "verità accettabile" e dicibile sul caso Moro prima della caduta del Muro di Berlino.

Una "verità" che per￲ò ha lasciato aperti molti interrogativi, sui quali si è sviluppato il lavoro - che non è stato concluso a causa dell'interruzione anticipata della XVII legislatura - della Commissione Moro-2.

L'opinione pubblica non sa che, contrariamente a quanto si possa pensare, la sua individuazione emerse progressivamente e con una certa lentezza, fino a essere "consacrata" nella sentenza della Corte d'Assise al processo Moro-ter, le cui motivazioni furono depositate il 12 ottobre 1988. Più di dieci anni dopo il sequestro.

La sentenza riconosceva che "è una verità processuale quella che lo statista sia stato tenuto in cattività nell'appartamento di via Montalcini n. 8". Ma per l'identificazione i giudici hanno operato su un piano logico-deduttivo.

Si trattava, come si legge nella stessa motivazione della sentenza, "di una ricostruzione ex post, sia pure sillogistica, ed è in fondo la ricostruzione che fanno Savasta, Libera, Morucci e Faranda anche attraverso notizie indirette e fatti oggetto di rivelazioni da parte della stessa Braghetti e di altri. Il sillogismo è il seguente: Gallinari e Braghetti convivono dal 1977. Gallinari e una donna gestiscono la "prigione del popolo" dove è custodito Moro ed il primo esegue anche la condanna a morte dello statista. Ergo, la casa dove è tenuto in cattività Moro è l 'appartamento di via Montalcini, preso in locazione per l'Organizzazione dalla Braghetti, estremamente compartimentato a tutti gli altri brigatisti che ne vengono a conoscenza soltanto dopo la scoperta".

Lo stesso Morucci ha dichiarato di non essere stato mai in via Montalcini durante il sequestro Moro.

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